giovedì 26 novembre 2009

IL RUOLO DELLA DRAMMATERAPIA NEL PROCESSO EDUCATIVO.
Di Tania Zakharova.

Ogni persona, in origine, nel proprio bagaglio archetipico ha in sé molteplici possibilità di espressione dei sentimenti. Il bambino, tramite una lettura emotiva degli eventi, vive la pluralità delle proprie possibilità “sceniche” esistenziali. Col passare del tempo si subisce un modellamento, la spontaneità dell'espressione individuale si inibisce con una sorta di controllo delle variabili dei propri spazi di vita e quel periodo giocoso che è l’infanzia cede il posto ad un nuovo momento di costruzione del proprio personaggio nel mondo: si conosce il modo in cui presentarsi alla propria madre per essere amati, ci si immagina somiglianti al padre, poi in conflitto con una o con entrambe le figure genitoriali, infine nel gruppo dei pari, costruito spesso per trovare nuovi equilibri, nuove vie d’uscita dal proprio copione di sempre che impone una parte che resiste ad ogni volontà di cambiamento. Si avvicendano, così, periodi in cui il timore del giudizio sociale prende il sopravvento, l’imposizione non ragionata né letta in maniera critica delle norme morali suggerisce l’attesa e la fuoriuscita dallo spazio extra quotidiano comporta una cristallizzazione delle proprie possibilità. L’attore-persona, spesso, finisce per cadere nella trappola dei condizionamenti, dove non c’è più spazio per eventuali libere possibilità interpretative. Frequentemente, infatti, capita di trovarsi di fronte alla sofferenza psichica quale mancata possibilità espressiva e cristallizzazione delle proprie possibilità. Quando l’attore-persona inizia a conoscersi in profondità e integra in sé l’esistenza di vari “personaggi” che orbitano nella sua psiche allora i suoi orizzonti si ampliano, i vicoli ciechi diventano paesaggi e i propri rapporti con il mondo diventano scelte libere. La drammaterapia interviene come passaggio verso la creazione di più possibilità interpretative della realtà e come lo strumento dell'integrazione e trasformazione della personalità nella sua interezza. Tra i modelli di comunicazione educativa, la drammaterapia si prospetta particolarmente efficace nel veicolare l'insegnamento e il coinvolgimento emotivo. Da sempre, come ricorda l’epistemologo P. Feyerabend (1984), il teatro è stato una forma di conoscenza:

“La poesia, l'epica, il teatro svilupparono mezzi per la rappresentazione di particolarità individuali e di leggi sociali molto tempo prima che se ne occupassero la psicologia scientifica e la sociologia, e ancor oggi sono molto più avanti nel cogliere e rappresentare la tensione fra soggetto e oggetto” (125).

Il teatro infatti può essere visto come un “dispositivo conoscitivo” molto articolato, mediante il quale si realizza una forma di conoscenza psicologica dell’uomo. La funzione dell’attore nel teatro classico, nel teatro tradizionale è quella di calarsi nel personaggio, viverlo e trasformarlo. Nella cultura occidentale un grande posto hanno Euripide, Eschilo e altri tragici greci che attraverso la tragedia veicolavano concetti fondamentali - il rapporto con la morte, il rapporto con le passioni, il rapporto con la scoperta del Sé. Il teatro quindi non è solamente un “luogo” dove si va per distrarsi, ma una “attività di ricerca”, di studio, di conoscenza.

“Quel che accade nell’ambiente psichico teatrale, in realtà accade nella nostra mente, e se noi partecipiamo in maniera compiuta, attenta, conforme ai canoni antichi, la trasformazione che si ha nel teatro, l’epilogo, è lo stesso epilogo che sentiamo noi emotivamente. Proprio per questa partecipazione lo spettacolo teatrale è un modo straordinariamente potente per trasmettere insegnamento, e molto di più dei concetti, vengono veicolate le immagini: le maschere, il trucco, le forzature caricaturali su certi aspetti caratteristici della personalità, la personalità aliena, la personalità nevrotica, la personalità che domina certi caratteri; fa vedere che cosa può succedere nella vita e il soggetto che partecipa ne trae lezione e cerca di prendere le distanze da quelle parti di lui che assomigliano un po’ troppo a certi attori sul palcoscenico.” (Prof.Ferrini)(1)


Principio centrale della drammaterapia è l’idea che la costruzione di una realtà drammatica condivisa possa costituire un luogo di scambio, in cui è possibile sperimentare ruoli, relazioni, pensieri, emozioni, all’interno della cornice protettiva della “finzione”. Questo processo di costruzione, che è essenzialmente un processo di gruppo, implica la creazione di un clima di tolleranza e collaborazione, che incoraggia la sensibilità empatica del gruppo e consente l’incremento delle capacità di relazione. Al contempo, attiva e mette in contatto le componenti creative dei partecipanti, favorendo l’area dell’immaginazione e dell’esperienza estetica. Questa particolare posizione della drammaterapia al confine tra scienza ed arte ne consente l’applicazione in differenti campi: nella prevenzione del disagio psichico e sociale; nella crescita del benessere di individui e gruppi e della comunicazione sociale. La partecipazione ad un gruppo di teatroterapia può essere efficacemente sperimentata anche da parte di chi non si sente particolarmente predisposto a questo modello educativo, dal momento che l’accento non è centrato sulla tecnica ma sulla possibilità di imparare a comunicare ed esprimersi creativamente attraverso i linguaggi teatrali. Conoscenza, comunicazione e cambiamento vanno visti come momenti di un unico processo. Nel teatro la comunicazione, l’espressione tende a coincidere con una trasformazione dell’individuo (attore/spettatore), su diversi piani. Questa coincidenza tra conoscenza, comunicazione e trasformazione apre al ritorno ad una “arte umana”: l’arte non più dissociata dalla personalità e dalla vita dell’artista. Le operazioni artistiche (processi creativi e prodotti) convergono nel punto fondamentale che lega il potere terapeutico del drammaterapia e quella che, secondo tutte le grandi tradizioni, è la risorsa risolutiva per l'armonizzazione della personalità: la ricongiunzione con la parte più profonda di sé, oltre i meccanismi e i condizionamenti della personalità storica, per una gioiosa riscoperta di infinite qualità sublimi in sintonia con l’ordine Divino.

(1) Prof.Ferrini, seminario residenziale CSB a San Casciana (FI), lezione conclusiva, Aprile 2009.

giovedì 1 ottobre 2009

IL MONDO NELL'ARTE E L'ARTE NEL MONDO.
Tratto da una conferenza del Prof. Marco Ferrini,
tenutasi ad Albettone l'1 Novembre 2008.
A cura di Fabrizio Fittipaldi.

Cominciamo col dire che la mondanità non deve esser vista come un inferno, come qualcosa di repellente o ripugnante: questa non è la corretta visione. Dobbiamo cercare di diventare sensibili alla sofferenza altrui, coltivando il nobile sentimento della compassione. Un artista, un creativo, che ha le antenne più lunghe del resto dell’umanità, è sicuramente più sensibile alle nevrosi, alle devianze e alle sofferenze; come anche alle speranze e ai sogni della società. Che l’artista non commetta l’errore, commesso da molti così detti artisti, di innamorarsi del mezzo, dimenticandosi il fine e che, sedotto dalle lusinghe e dagli apprezzamenti generali, incantato e rapito dalla propria stessa opera, non perda di vista il senso di responsabilità verso lo spettatore e il suo specifico dovere sociale (in sanscrito svadharma).
Non tutta la creatività giunge a varcare la soglia del tempio dell’arte e non tutti quelli che fanno musica o che imbrattano tele possono davvero essere annoverati come artisti. Solo quando il senso estetico dell’artista -educato dalla pratica della virtù e della purificazione- travalica la soglia della percezione sensoriale, possiamo cominciare a parlare di arte. La Madonna del cardellino di Raffaello non riproduce la percezione sensoriale che l’artista aveva del modello, né tantomeno la Gioconda di Leonardo o le Pietà di Michelangelo. Questi modelli, seppur esistenti, non erano sicuramente di natura tangibile; erano piuttosto modelli ideali che l’arista è riuscito a visualizzare e a trattenere nella materia, infondendovi sentimento, aspirazione, bellezza, pathos. Questa è vera arte: la manifestazione di una forza entropica, vitalizzante e trasformatrice; di una corrente ascensionale che innalza lo spirito oltre gli i limiti della dimensione materiale, ma che non sempre è espressa in maniera soddisfacente.

Raffaello Sanzio, Madonna del cardellino, 1506 ca., Firenze, Galleria degli Uffizi.

Tra i moderni, molti sono coloro che, attraversati da questa energia divina, hanno deformato la loro visione, sforzandosi di sfuggire alle strette maglie dell’illusione. Dostoevskij, Kandinsky, Chagall, de Chirico hanno sentito il bisogno di superare la loro percezione sensoriale, poiché intuivano una realtà ulteriore: una forza, una tragedia, un mare di pathos che non potevano descrivere formalmente e accademicamente, ma solo per mezzo dell’interpretazione soggettiva. Purtroppo non tutte le interpretazioni producono effetti desiderabili e spesso proprio a causa di questo sforzo innaturale l’artista finisce con l’accrescere le sue sofferenze. Van Gogh aveva la sensibilità dell’artista e sentiva intensamente che la verità e la realtà delle cose gli sfuggiva. Non poteva e non voleva dipingerla così come si sarebbe presentata ad una macchina fotografica di oggi e così la interpretava, nel tentativo di esprimere la sua speciale (seppur immatura) sensibilità e visione. Scrittori come Dostoevskij vivono sull’orlo della nevrosi e si mantengono all’interno di una struttura tutto sommato ancora sana proprio grazie all’espressione artistica, descrivendo i tormenti e le tragedie delle figure che emergono dai loro romanzi.


Vincent Van Gogh, Autoritratto, 1889, Parigi, Museo d'Orsay.

Tutti conoscono i grandi del Rinascimento, ma molto meno celebrate sono certe personalità artistiche che, pure, hanno fornito spunti fondamentali affinché altri, aggiungendo tecnica all’arte, diventassero “immortali”. Infatti, cosa sarebbe stato del Rinascimento senza Andrea del Sarto o senza il Pontormo; dove sarebbe sorto il manierismo con le sue forme contrapposte? Altri, poi, lo hanno sviluppato tecnicamente, come il Vecellio, che è diventato l’uomo di Carlo V, il Tintoretto o Jacopo Robusti. Bisogna sempre ricordarsi, però, che prima della tecnica c’è l’intuizione: l’invenzione della prospettiva da parte di Paulo Uccello, la teoria di Monge per la distribuzione delle ombre in maniera scientifica… una volta acquisite queste grandi idee sembrano cose da niente. L’arte rappresenta una tensione verso l’alto che può essere trasdotta con innumerevoli mezzi e così come gli artisti, anche i grandi scienziati hanno prima intuito e solo successivamente dimostrato le loro scoperte: con i numeri, con le formule, con le regole e con i passaggi logici. Altrimenti il gregge non avrebbe seguito, avrebbe continuato a pensare che ciascuno è portatore delle proprie idee, tutte ugualmente valide e sarebbe rimasto attaccato alle sue concezioni erronee. Galileo, fin dalla fine del sedicesimo secolo, dà l’avvio in segreto a quello che sarebbe poi diventato il metodo sperimentale, vanto di tutti gli scienziati moderni. Non poteva chiedere un laboratorio né al Vaticano, né ai Medici o ai Lorena, perché piuttosto gli avrebbero predisposto un rogo; così sistema le sue cose tra l’Università e il battistero di Pisa per cominciare a osservare meticolosamente il moti oscillatori del pendolo. L’idea che desidero trasmettere è che l’intuizione deve essere riconosciuta come l’espressione più luminosa della creatività e che può aversi tanto nella scienza, pensiamo a Galileo, Einstein o David Bohm, come nella politica o come in qualunque altra nobile attività umana. In particolare, nella visione di Shrila Prabhupada, è la predica a rappresentare la madre di tutte le arti, con i suoi contenuti elevati, le sue emozioni intrinseche, le figure retoriche e lo stile personale. È molto appropriato anche parlare di arte culinaria, il cui fine, però, non è semplicemente quello di far fare una festa ai sensi, quanto piuttosto allineare tutta la struttura psicofisica e nutrire l’anima con una preparazione che si concluda con l’offerta del cibo al Signore Supremo, che ci dà gli ingredienti per cucinare. L’intuizione è come l’ispirazione e l’ispirazione artistica è come l’ispirazione religiosa, scientifica, psicologica o filosofica. Dobbiamo diventare capaci di vedere la bellezza dovunque, anche nell’accostarci a una mosca: vedere questa bellezza, che non è quella che ci rimandano i sensi, è l’essenza dell’arte perché se non la si percepisce non la si può descrivere. L’opera d’arte trasmette la visione dell’artista. A metà del millecinquecento il Pontormo scrive un diario ed è il diario di una persona che soffre, di una persona che è contorta dalla sofferenza; nella sua rappresentazione della deposizione la figura del Cristo (tirato giù dalla croce come fosse un manichino) e quelle dei testimoni della Sua passione portano i segni di questa sofferenza. Nell’affresco di Piero della Francesca, l’espressione di coloro che contemplano il Cristo risorto è carica di speranza e sembra che dicano: “risorgiamo anche noi!” L’arte quindi non corrisponde alle dimensioni della tela o ai valori di mercato suggeriti dalle maggiori case d’asta: questa è la macellazione dell’arte, tutta presa dai suoi aspetti esteriori e interessata a incanalare, attraverso la propaganda, il consenso su certi nomi, piuttosto che su altri.

Pontormo, Deposizione, 1526-1528, Firenze, Chiesa di Santa Felicità.

In conclusione il mondo può essere d’ispirazione per fare arte. Siamo nel mondo e dobbiamo aiutare le persone che sono qui. Dobbiamo esprimere la nostra sensibilità per dare una qualità migliore alla vita e rappresentarla in maniera che diventi una lectio, una upadesha, un insegnamento. Questo è il dovere di un artista. Termino con un aforisma di un poeta che per certi suoi aspetti arguti mi è molto caro: “Scrivere un libro è meno che niente, se il libro fatto non rifà la gente”. Vale per i quadri, vale per i concerti, vale per qualsiasi cosa: se noi perdiamo la finalità per cui operiamo, tutto diventa scadente.

mercoledì 9 settembre 2009

ARTE, COSCIENZA E ISPIRAZIONE (PARTE SECONDA).
Tratto da una conferenza del Prof. Marco Ferrini,
tenutasi a Ponsacco il 14 Marzo 2009.

A cura di Fabrizio Fittipaldi.

Lo spazio e il tempo non esistono su di un piano ontologico, ma solo su un piano relativo e puramente convenzionale. L’arte, quando autentica, esprime uno sforzo costante a trascendere questi due pilastri della mente umana che, d’altra parte costringono la coscienza a mantenersi al di qua dei livelli supremi che le competono e a cui naturalmente tende. L’ispirazione consente dei viaggi che trascendono ogni riferimento fisico e spazio-temporale; dei viaggi che non si compiono con il corpo e che non possono essere testimoniati da altri se non dal protagonista. Dante, San Paolo, Maometto, Ibn Arabi sono viaggiatori di dimensioni altre che grazie ai loro resoconti ci consentono di gustare qualche goccia dell’oceano di verità che hanno solcato coi navigli della loro consapevolezza.
Il Rapimento in Cielo di San Paolo, Domenichino, 1607-1608, Parigi, Museo del Louvre.

L’arte racchiusa nella Divina Commedia, a settecento anni di distanza dalla sua composizione, produce brividi che, ancora oggi, scuotono i lettori d’ogni parte del mondo fin nell’intimo della loro natura. La scultura greca di duemila cinquecento anni fa, le opere di Fidia, di Skopas, di Prassitele, di Lisippo sono portatrici di una proporzione assoluta ed esprimono modelli così perfetti che, percepiti nella loro pienezza, fanno trasalire nella esperienza divina della bellezza. Se ci accostiamo agli antichi testi della tradizione vedica che trattano il tema dell’arte e delle proporzioni, ci imbattiamo nei deva e nelle descrizioni che li riguardano. I deva sono degli esseri celesti che vivono in un corpo di luce impercettibile ai sensi e che abitano dimensioni superiori; per appercepirli occorre aver sviluppato un livello elevato di coscienza che travalica i limiti della comune consapevolezza. A chi raggiunge ed esplora questi stati di super-coscienza si concede la visione e l’esperienza della perfetta proporzione e armonia tra la parti e tra le parti e il tutto: così “l’uomo” di Leonardo, che era stato anche “l’uomo” di Vitruvio, entra in un quadrato e descrive una circonferenza.
Coppia Regale, da Gizah (Egitto), Boston, Museo.

L'Uomo di Vitruvio, Leonardo, 1490, Venezia, Accademia.

Tutte queste grandi anime di artisti e di viaggiatori metafisici sono collegati, condividono la stessa dimensione a-spaziale/a-temporale e vivono in relazione tra di loro. Questa è la dimensione dei principi eterni, delle verità eterne e delle realtà eterne, che rappresentano l’universalità che noi tutti ricerchiamo e attraverso la quale ogni dualità si dissolve e tutto diventa amichevole, benevolo, evolutivo: non siamo più vittime delle disgrazie che costellano quest’esistenza materiale, ma ne diventiamo distaccati testimoni. Il principio fondamentale è l’intuizione che, perseguita e coltivata, costituisce la chiave d’accesso all’ispirazione e alla percezione di valori e di realtà che le strutture della materia non hanno ancora rivelato. Questi principi archetipici della creatività e della conoscenza non sono esclusivi del mondo dell’arte, ma sono condivisi dalla più alta ricerca scientifica o filosofica; per non parlare di quella spirituale. Il famoso teorema di Pitagora esprime una implicita e segreta relazione tra i lati di un triangolo rettangolo: l’equivalenza tra il quadrato costruito sull’ipotenusa e la somma dei quadrati costruiti sui cateti. All’origine di questa scoperta non c’è una misurazione, ma una pura intuizione, solo successivamente comprovata. Allo stesso modo Newton ha scoperto la legge gravitazionale: tutta la sua intelligenza era predisposta alla soluzione di determinate problematiche, cosicché la semplice esperienza di una mela che cade dall’albero si è trasformata, per lui, nella scintilla che ha fatto divampare il fuoco della comprensione, della percezione interiore di dinamiche e realtà fino a quel momento sconosciute. Per poter essere rivelata, una realtà deve essere prima intuita. Nella danza, nella musica, in tutte le manifestazioni d’arte sono i sensi interni che verificano la autenticità di una forma (tanto un passo di danza come un’armonia, tanto una figura plastica come una retorica, ecc.). È in funzione di questi sensi interni che l’artista sviluppa un determinato rapporto con la materia, sforzandosi di adattarla alla sua visione e intuizione interiori. Attraverso la pratica, madre di ogni perfezione, si può giungere ad assottigliare il divario che esiste tra l’immagine intuita e quella che l’artista è in grado di esprimere, ma non ad annullarlo. La materia, infatti, mostra sempre una specifica resistenza alla volontà dell’artista, fino a opporvisi ostinatamente. Nel mezzo di questo “litigio” può accadere che da un bel blocco di bianco di Carrara o da un bel pezzo di noce partano dei pezzi in più, compromettendo così il progetto originario e provocando, per questo, una disaffezione dell’artefice nei confronti dell’opera. Un sentimento simile, persino violento e aggressivo, può nascere nell’artista la cui opera sia stata scoperta in una forma ancora incompiuta o da lui stesso non approvata. La tradizione ci rimanda, come monito, la storia della figura divina di Shri Jagannath: avendo incaricato il famoso scultore Vishvakarma di eseguire una scultura che raffigurasse l’immagine divina di Shri Krishna, il re committente, nonostante le raccomandazioni volle vedere il lavoro prima che fosse terminato, facendo sì che tutto, come d’incanto, si bloccasse al punto in cui era quando egli entrò nel laboratorio.
Murthi di Jagannath Baladeva Subhadra, Puri, Orissa, India.

Queste reazioni apparentemente eccessive hanno molto a che vedere col processo artistico e con uno stato, che gli è proprio, di profonda e intensa concentrazione. Facendo confluire stabilmente i raggi del flusso di coscienza sul punto dell’intuizione l’artista lo penetra ed entra in quel mondo dove risiede la forma che ha scelto di riprodurre. Ogni motivo di distrazione potrebbe rivelarsi fatale e compromettere in un attimo i successi ottenuti con un lavoro intenso e prolungato; in una misura inversamente proporzionale al grado di conoscenza, maturato dall’artista-meditante, della dimensione ultrasensibile raggiunta. La pratica continua e la ripetuta esperienza permettono di approfondire in maniera così piena la relazione con questi livelli percettivi superiori da consentire una amplia integrazione tra questa e le frenetiche dinamiche del mondo quotidiano. Ma per il vero artista la ricerca non conosce sosta né fine e questi conseguimenti non sono che stazioni di passaggio nella sua eterna scalata. Ecco perché spesso gli artisti appaiono strani ed estremamente stravaganti: non solo per puro egocentrismo (il che costituisce un preciso difetto), ma anche perché cercano costantemente quel mondo che hanno voluto e che sono stati in grado di penetrare. Questa capacità è spesso un’eredità di vite precedenti, piuttosto che il frutto di enormi sforzi compiuti in una sola vita; il che ci permette di spiegare casi apparentemente miracolosi come l’inconcepibile precocità di Mozart o lo stupefacente talento pittorico di un giovane e incolto pastorello, qual’era Giotto prima dell’incontro con Cimabue, suo futuro maestro. Gli stessi principi gnoseologici strutturano l’indagine scientifica, filosofica o religiosa: qualunque sia il campo esperienziale, per oltrepassare le barriere mentali del conosciuto, il vero ricercatore deve raggiungere uno stato coscienziale che trascenda i ristretti limiti conoscitivi che caratterizzano i cinque organi di senso. Livelli di percezione elevata sono diretta conseguenza di una purificazione della coscienza, così come l’autentica ispirazione corrisponde a uno sviluppo etico e morale ed è sempre finalizzata all’elevazione coscienziale delle persone. Infatti non sempre la percezione di una realtà differente da quella oggettiva corrisponde all’esperienza di una dimensione superiore e, se è vero che le droghe inducono una alterazione dei sistemi appercettivi sensoriali, fanno precipitare la coscienza a livelli inferiori di realtà. È facile scuotere le persone con discorsi tanto appassionati quanto insensati, con provocazioni pseudo-artistiche o con sostanze tossiche, ma non è altrettanto semplice creare i presupposti affinché una persona, dopo l’autentica esperienza spirituale, non voglia più tornare ai livelli ordinari di percezione. Nella letteratura sacra e in particolar modo nel Bhagavata Purana sono narrati diversi episodi che esemplificano questa incontrastabile attrazione che l’esperienza mistica produce su coloro che ne sono stati rapiti: a Narada Muni e a Druva Maharaja è concesso di contemplare per un attimo la forma stessa di Dio e da quel momento e per il resto della loro vita non potranno più discostarsi dalla ricerca di quella visione. Lo stesso Dante descrive nella Vita Nova una visione spirituale che orienterà le sue scelte, i suoi interessi e le sue ricerche fin dalla sua giovinezza, e che lo spronerà a portare avanti la sua opera nonostante le drammatiche vicende politiche e personali che segnarono in maniera così forte la sua epoca e la sua vita. Dante non si lascia invischiare nelle corrotte dinamiche politiche della Firenze di allora, né si abbatte per il repentino e terribile cambio di posizione sociale dovuto all’esilio forzoso e alle ripetute condanne a morte. La sua coscienza è illuminata e accesa dal desiderio di realizzazione della propria natura spirituale. Per lui la poesia rappresenta il mezzo per indagare e per realizzare la bellezza e la dolcezza; il mezzo che gli permetterà di giungere alla scoperta dell’amore divino che tutto pervade e che unisce eternamente l’anima individuale col Signore supremo. Per tutta la vita Dante è volto alla ricerca dell’anima e della suprema relazione d’amore, ma è costretto a velare questi suoi sentimenti profondi per evitare le ritorsioni della potente Chiesa del tempo che, per motivi politici ed economici, deteneva con la forza il monopolio sulla religiosità. In questo contesto si spiega la figura di Beatrice e delle “donne scherno” dei poeti stilnovisti che, lungi dall’essere donne in carne e ossa, celano, a occhi indiscreti, l’anima degli artisti e il loro irrefrenabile desiderio di realizzazione e comunione col divino. Volendo trasmettere in una forma di assoluta bellezza (in grado di riflettere l’altezza dell’argomento) significati che travalicano la comprensione logica, Dante deve scrivere in modo da creare una nebbia che allo stesso tempo celi e manifesti i contenuti più profondi della sua opera. Nel porci di fronte ai versi della Commedia, dobbiamo cercare di spogliarci delle nostre forme mentali per consentire alle immagini con cui l’opera parla, frutto della più alta ispirazione artistica, di scuoterci e nutrirci. Immagini che penetrando e risuonando dentro di noi ci conducono a sperimentare realtà nuove che trascendono il mondo delle apparenze. Questo è il frutto dell’ispirazione. La si può cercare nell’arte, la si può cercare nel deserto, la si può cercare prendendosi cura degli ultimi; la si può portare nei laboratori universitari, nelle mostre d’arte o nei centri di predica: l’importante è avere qualcosa da donare, l’importante è creare un elevato livello di coscienza. Da un intenso stato meditativo si genera l’estasi che si esprime d’accordo alle tendenze e alle competenze individuali; ma alla base di ogni comprensione profonda e rinnovatrice c’è sempre l’ispirazione, che informa opere capaci di trasformare la vita alle persone. In conclusione l’arte non è diretta solo all’educazione estetica e formale, l’incontro con un’autentica opera d’arte non rappresenta un’esperienza puramente estetica, relativa alla sensazione. L’artista deve costantemente confrontarsi con le responsabilità implicite del suo mestiere, senza lasciarsi irretire da un sentimentalismo superficiale e dannoso. Il compito dell’opera d’arte, infatti, è quello di far compiere allo spettatore un salto evolutivo che equivalga a un effettivo miglioramento della qualità della sua vita, in funzione di quella eterna corrispondenza, oramai rinnegata, tra il bene e il bello. Il processo comincia con un’attitudine apparentemente prosaica che consiste nell’impegnarsi a far bene qualunque cosa si sia chiamati a fare. Arricchendo così il sistema nervoso di una maggiore quantità di ordine e funzionalità, si favorisce il riorganizzarsi delle interazioni neuronali e il complessivo predisporsi dello strumento a generare nuove comprensioni e nuove visioni che finiscono per influenzare positivamente l’intera personalità.

martedì 14 luglio 2009

ARTE, COSCIENZA E ISPIRAZIONE (PARTE PRIMA).
Tratto da una conferenza del Prof. Marco Ferrini,
tenutasi a Ponsacco il 14 Marzo 2009.

A cura di Fabrizio Fittipaldi
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Esiste una rapporto intrinseco tra arte e spiritualità, e questa impalpabile relazione è all’origine del fascino, del misterioso magnetismo che scaturiscono da ciò che in apparenza non è che un grumo di materia senza vita. Opere come la Pietà Rondanini o il Prigione di Michelangelo(1), sembrano emergere da sostanze inerti, ma allo stesso tempo possiedono una pregnanza, una valenza dinamica che può scuotere l’essere nella sua più intima essenza e interiorità. In sanscrito questo brivido è indicato col termine vegam e descrive quella scossa propria dell’impatto di un’autentica opera d’arte sulla sensibilità di uno spettatore attento e ricettivo. È un’energia invisibile che provoca trasformazioni concrete e sperimentabili nella coscienza di chi sia favorevolmente predisposto all’esperienza. Non tutti, dunque, sono immediatamente dotati di questa speciale sensibilità, di questa capacità di rilevare l’intima natura della bellezza: un’esperienza del bello che travalica la dimensione estetica e sensoriale, per introdursi nei più reconditi circuiti dell’essere, oltre le categorie spazio-temporali che circoscrivono la realtà psico-fisica, per raggiungere una dimensione più intima e profonda, illuminata dalla luce della consapevolezza. Arte senza ispirazione è ben poca cosa e diventa subito artigianato, ripetitività; una opera che non sia sostenuta da una originale esperienza d’ispirazione e che ricalca in maniera superficiale, per quanto tecnicamente e formalmente ineccepibile, la visione di qualcun altro, non ha nessuna possibilità di risvegliare nello spettatore una sensibilità profonda. D’altro canto se l’artista è stato attraversato da quel brivido di conoscenza che con la rapidità di un lampo si diffonde nel nostro essere illuminando a giorno la nostra comprensione e se su questa profonda realizzazione ha fondato la sua opera, allora ci troviamo di fronte a un segno in grado di restituirci quella stessa impressione trascendente. Non è detto che una autentica opera d’arte provochi in noi quel brivido di cui sto parlando: ciò dipende dalla nostra sensibilità, dalla nostra predisposizione, da quanto abbiamo purificato ed esercitato i nostri strumenti percettivi e da quanto siamo presenti, con la nostra coscienza, nell’esperienza. Esiste una stretta relazione tra coscienza e ispirazione. L’opera d’arte, come qualsiasi matura e stabile realizzazione della dimensione spirituale, è sempre l’esito di un processo e di uno sforzo continui, seppure con variabili di intensità. Percorrendo un sentiero ascendente, la coscienza dell’artista-ricercatore si affina progressivamente, fino a raggiungere un stato percettivo superiore, che gli consente di penetrare gli strati più superficiali e grossolani della materia. Se questi sforzi sono ben coordinati, gli apparenti insuccessi iniziali o intermedi, non potranno interrompere il coerente e continuo progresso, al di là di quanto possa apparire ad un osservatore distratto e superficiale. Il vero artista non si scoraggia mai, neanche di fronte a insuccessi clamorosi, ma, con incrollabile determinazione, persegue la sua vena e prosegue la sua ricerca. Nonostante la sofferenza, egli sa che ad ogni fallimento, ad ogni errore segue una correzione e, in virtù della correzione, la coscienza si innalza. Una coscienza elevata consente un innalzarsi del livello di attenzione, un intensificarsi del flusso continuo di energia psichica che, come la base di un cono sul suo vertice, converge sull’oggetto della ricerca. Nella mente dell’osservatore quest’ultimo viene a costituirsi come un punto: privo di dimensioni, fuori dal tempo e dallo spazio, ma, insieme, generatore di quel cerchio che delimita il suo intero campo coscienziale. Il vero artista giunge a sperimentare questi livelli, ma non è detto che riesca sempre a mantenersi collegato; può anche darsi che, pur seguendo la traccia con tutte le sue risorse, nella speranza di essere arrivato scopra di aver perduto il contatto. Viene da piangere e qualche volta, nelle persone meno equilibrate, insorgono moti di collera, anche gravi (come lo erano le crisi violente e distruttive del grande Michelangelo Merisi da Caravaggio).
Decollazione del Battista, Caravaggio, 1608, La Valletta (Malta), Cattedrale di San Giovanni.

L’ispirazione artistica, che è un elevato stato dell’essere, la si deve meritare e conquistare grazie ad uno sforzo continuo del soggetto. Può essere paragonata a una visione mistica, alla visione di strutture della materia che non sono rilevabili dalla percezione sensoriale. Si avvale di una differente, più profonda e interiore struttura appercettiva, rispetto a quella sensoriale; una struttura trascendente che non può soddisfarsi con combinazioni e armonie puramente estetiche e che, nella musica, nella danza, nella pittura, nella scultura o nell’architettura, è sempre alla ricerca di una dimensione ulteriore, essenziale e costruttiva.
Essendo stati formati a immagine e somiglianza di Dio, la qualità divina della creatività ci appartiene in modo essenziale, ma la si può esprimere solo quando viene raggiunto un livello di evoluzione sufficiente, al di sotto del quale non si può far altro che ripetere e contraffare. È la divinità insita in ogni donna e in ogni uomo che agisce con questo spirito creativo!
Oggi si è stabilita una tendenza ad abusare di termini quali “creativo” e “creatività”, ma la creatività di cui ci stiamo occupando è connessa al disvelamento della bellezza essenziale, al di là della sua apparenza esteriore. Dall’esperienza di questa bellezza scaturisce un brivido interiore che, seppur innescato dalle percezioni sensoriali, non è il prodotto di un corto circuito interno alla prakriti (materia) e generato dal semplice contatto dei sensi con il fenomenico esterno. L’esperienza mistica, qualunque sia la colorazione che assume, partecipa di una natura ben diversa rispetto a quella dei sogni o delle mere fantasie: non si tratta di una creazione o di una fabbricazione della mente, ma della percezione diretta di qualcosa che si è sprigionato dall’essenza stessa della realtà e che non necessita di nessuna verifica ulteriore. Chi l’ha vissuta potrebbe incontrare numerose difficoltà nel tentativo di descriverla o di spiegarla ad altri e, non riuscendovi, potrebbe anche essere messo in croce. Eppure l’esperienza, se autentica, non può essere, in alcun modo, cancellata.
Galileo, attualmente riconosciuto in tutto il mondo come l’iniziatore del metodo scientifico, a suo tempo fu costretto ad abiurare: a negare quelle verità di cui aveva avuto una così chiara e diretta esperienza. Nessuno, però, avrebbe potuto intimamente convincerlo della falsità delle sue intuizioni e delle sue scoperte, della erroneità della sua percezione e visione di un “dialogo tra i massimi sistemi”: una relazione universale che lui, coerentemente con la sua formazione, si sforzò di esprimere con funzioni matematiche.
Questa stessa relazione può essere espressa con qualunque mezzo a disposizione della creatività “umana” e della sua specifica capacità di ispirarsi a modelli e strutture della materia e del pensiero che gli occhi non vedono. Lo stesso Giordano Bruno aveva avuto esperienza di quello che diceva; o Michelangelo, nelle sue opere plastiche e poetiche. La persona ispirata riesce a concepire una forma nella materia apparentemente inerte; la visione dell’artista impregna l’opera e vi dimora e quando noi contempliamo l’opera, veniamo in contatto con quella visione che la sostiene.
Un chiaro esempio del carattere puro dell’ispirazione, indipendente dallo strumento attraverso il quale si manifesta, ce lo offrono Leonardo e il suo genio polimorfo. Furono gli Sforza ad attirarlo a Milano con il concreto compito, di riorganizzare le acque dell’Adda per migliorare ed estendere la produttività delle terre lombarde. Dobbiamo immaginarci Leonardo deciso ad applicare la sua grande intelligenza a quest’opera estremamente utile e che, osservando il territorio, contemplandolo e assorbendone l’intima natura e le segrete corrispondenze, comincia a concepire una serie di canali che rappresentano ancora oggi, a cinquecento anni di distanza, la struttura portante del sistema di irrigazione di centinaia di migliaia di ettari di pianura padana. Giacché era lì gli commissionarono l’affresco de “L’ultima cena”, dove egli ha inserito simboli, prospettive e visioni arcane e dove ha delineato un sistema di interazioni psichiche così ricco e sottile da meritare un’intera lezione dedicata esclusivamente a questo argomento. Erano la sua visione e le sue realizzazioni di una natura invisibile agli occhi a sostenere la sua potentissima creatività, non certo una grande, seppur in-significante, abilità tecnica.
Ultima Cena, Leonardo da Vinci, 1945-1498, Milano, Chiesa di Santa Maria delle Grazie.

Non ho intenzione di sminuire il ruolo della percezione sensoriale, ma il suo campo d’azione non può essere quello dell’arte. Gli appartiene, piuttosto, l’estetica dell’artigianato, in grado di produrre opere preziose e gradevoli che non rimandano, però, a nessuna dimensione “altra”. Gli artisti, così come i mistici e i religiosi, possono concepire un mondo di strutture non ancora materializzate e percepibili coi sensi, ma che, come direbbe Platone, esistono nel mondo delle idee. Dobbiamo affermare l’esistenza di questo paradiso platonico che, in altro contesto, prende il nome di Vaikhunta. Queste dimensioni possono essere visualizzate e possono essere consapevolmente sperimentate, grazie a un processo di ascensione a livelli superiori di percezione e di realtà.

(1) Confronta con l’articolo “Michelangelo, un madrigale, l’esperienza estetica e la mistica neoplatonica”, pubblicato il 4 marzo 2009, su questo stesso blog.

mercoledì 1 luglio 2009

SEMINARIO ESTIVO 2009.

La Scienza della Meditazione e la Trasformazione evolutiva della Personalità.

Lo studio dei poteri psichici e delle percezioni extrasensoriali (parapsicologia) attraverso l'analisi del Vibhuti Pada di Patanjali, in confronto con la Bhagavad-gita e altri testi della cultura indovedica.

Relatore: Marco Ferrini, Fondatore e Presidente del Centro Studi Bhaktivedanta.

Dove: Villa Vrindavana - Via degli Scopeti 106/108, San Casciano Val di Pesa (FI).

Quando: Dal 27 Luglio al 4 Agosto 2009.



Per approfondimenti: 'LA SCIENZA DELLA MEDITAZIONE'.

lunedì 22 giugno 2009

EMOZIONE ESTETICA NELL’ARTE.
di Tania Zakharova.

In molti scritti d’arte, si è fatto spesso riferimento a termini come emozione e sentimento, utilizzati per descrivere il contenuto e la funzione dell’attività artistica. Lo stato emotivo suscitato da un opera d’arte, sia durante la sua fruizione, sia durante la sua produzione, viene definito, come è sottolineato dalle teorie estetiche contemporanee, emozione estetica e si riferisce ad un sentimento che si prova innanzi alla contemplazione della bellezza e dell’armonia che sono elementi solitamente peculiari di un’opera d’arte. Secondo alcuni studi in psicologia, l’arte costituisce un ambito particolarmente adatto per investigare le emozioni(1), perché ha il merito di rendere più esplicite tutte le intuizioni umane, riuscendo a cogliere in modo più immediato la natura del fenomeno emotivo. Dagli anni Cinquanta, gli studi di Arnheim, hanno contribuito a diffondere l’idea che l’emozione è connessa all’arte non per il suo contenuto immediatamente percepibile, quanto piuttosto perché essa presenta schemi sensoriali, immagini e pensieri come forme che hanno la capacità di trasmettere qualcos’altro(2) . Nei primi decenni del secolo scorso Lev Vygotskij, che per l'originalità delle sue opere fu chiamato il "Mozart della psicologia", offre degli spunti interessanti proprio a partire dall’esperienza estetica. Lo psicologo russo insorge contro chi vorrebbe vedere nell’arte solamente una funzione conoscitiva, gnoseologica, e anche contro chi riconduce l’arte al sentimentale, nella sua versione edonistica (l’arte come piacere). La sua attenzione va al processo di trasformazione che attraverso l’opera si mette in atto. Il processo artistico, insieme alla “metamorfosi del materiale dell’opera”, produce anche una “metamorfosi dei sentimenti(3)”. La filosofa e antropologa Suzanne Langer descrive il processo psichico che si esprime nella “esperienza estetica” dove il materiale fornito dai sensi viene trasformato: “[…] l’emozione estetica scaturisce dal superamento di barriere (costituite da pensiero coatto) e dall’ottenere di penetrare in certe realtà che sono, letteralmente, “ineffabili”; ma il contenuto emotivo dell’opera può essere qualcosa di molto più profondo di ogni esperienza intellettuale…: le realtà ultime stesse, i fatti centrali della nostra breve, senziente esistenza. Il “piacere estetico”, allora, è affine (benché non identico) alla soddisfazione di scoprire la verità(4).” Tutte le grandi tradizioni rivelano che l’arte non si riduce soltanto ad un’esperienza estetica o psicologica; al contrario, essa comporta quella che Platone e Aristotele chiamano katharsis, ovvero una “vittoria sulle sensazioni di piacere o di dolore”. Platone affermava che mentre la passione suscitata da una composizione di suoni “procura un piacere dei sensi agli insipienti, essa (la composizione) procura agli intelligenti quella letizia che è indotta dall’imitazione dell’armonia divina … quest’ultima letizia o contentezza che sperimentiamo quando prendiamo parte a una festa dello spirito, è una comunione e non una passione, ... un uscire dall’involucro psichico e un essere nello spirito(5)”. Per Aristotele la katharsis non è uno sfogo periodico delle nostre emozioni represse, immergendosi nelle quali ce ne può liberare; tale sfogo produce solo un appagamento temporaneo. La sua katharsis è un'estasi o una liberazione dell'anima immortale, e tale concetto si avvicina a quello che spesso troviamo nei testi tradizionali indiani, secondo i quali la liberazione si compie attraverso un processo in cui una performance artistica diventa un rito sacrificale, e lo scopo di questo rito è di sacrificare l'uomo “vecchio” e di farne nascere uno “nuovo” e più perfetto. L’io psichico gode delle superficie estetiche degli oggetti naturali o artificiali, a cui è affine; il sé spirituale gode della loro origine. Lo spirito è molto più esigente e sensibile; trova gusto non nelle qualità fisiche delle cose, ma in quel loro elemento ch’è chiamato fragranza o sapore: per esempio, “nell'immagine che non risiede nei colori”, o nella “musica non udita”. La “tranquillità d’animo” di Platone è quella “beatitudine” che la retorica indiana scorge nella “degustazione del sapore” di un’opera d’arte, un’esperienza immediata e congenere all’assaporamento di Dio(6)”. Secondo il Natya Shastra, il più antico trattato d’arte, drammaturgia e danza, considerato dalla tradizione indiana il “quinto Veda”, lo scopo dell’arte non consiste nella bellezza in sé ma nell’abilità di evocare gli stati più elevati dell’essere. L’arte utilizza la materia, per poi trascenderla; per esempio, peculiarità della danza, come della scultura, è l’uso del corpo; tuttavia il loro scopo comune è quello di creare la sensazione che danza o bellezza sono al di là di esso. Nella scultura indiana per esempio non si pone un accento eccessivo sulla raffigurazione anatomica del corpo e quindi sulla muscolatura come avviene nell’arte greca, ma si dà maggiore enfasi all’armonia della posa, in modo tale che l’attenzione dello spettatore non si arresti alla mera fisicità ma colga il messaggio di una verità sottile che si cela dietro l'immagine stessa. L'Arte nella sua forma naturale si configura come una tecnica creativa (karmamudra) in grado di sviluppare una reale conoscenza di sé (Jnanamudra). L'approccio creativo alla vita scaturisce dal bisogno spirituale di conoscere Dio e, per riflesso, se stessi. Il principio, tanto estetico che metafisico, che permea tutta l'arte della grande tradizione indiana ruota intorno al concetto di rasa (sentimento, sapore, tinta). I manuali chiamati shilpashastra, destinati agli shilpin o rupakara (“creatori di forme”), ovvero agli artisti, si muovono dal presupposto che una volta riuscito ad organizzare le forme materiali in modo da determinare efficacemente un rasa, l'artista diventa veicolo della Divinità. Egli, comunicando attraverso forme sensibili i contenuti invisibili del Divino, determinerebbe negli uomini, fruitori dell'avvenimento artistico e soprattutto del rasa da esso evocato, una sospensione, una pausa nell'altrimenti inevitabile susseguirsi di cause e di effetti (karma) che non permette agli esseri ordinari di riconoscere la propria natura profonda, immutabile ed eterna. Il tentativo di suscitare rasa avrà successo solo se l'artista sarà in grado di vivere intimamente ciò che deve esprimere e se lo spettatore sarà altamente ricettivo, sensibile e in grado di fondersi con il soggetto rappresentato.L’arte dunque, nella sua potenza intrinseca, capace di evocare i sentimenti della dimensione trascendente, è da intendere quale veicolo privilegiatissimo di purificazione e trasformazione interiore che permette di scoprire e assaporare la realtà divina.

(1) R. Arnheim (1966), p. 376: “ ... si dice che gli aspetti particolari della realtà colti e riprodotti dall’opera d’arte non siano accertabili né alla percezione sensoria, né all’intelletto, ma ad una terza capacità conoscitiva, detta sentimento... ”

(2) R. Arnheim (1966), p. 428: “[…] Non si tratta della percezione di aspetti statici riguardanti la forma, la grandezza, la tonalità cromatica o l’altezza sonora, che possono essere misurati con qualche genere di scala, bensì quella riguardante le tensioni orientate che sono trasmesse da questi stessi stimoli.[…]

(3) Vygotskij Lev S., Psicologia dell’arte, Editori Riuniti, Roma, 1976.

(4) Langer Susanne, Filosofia in una nuova chiave. Linguaggio, mito, rito e arte, Armando, Roma, 1972.

(5) Timeo, 80b.

(6) Sahitya Darpana, III, 2-3; cit. Coomaraswamy, The Transformation of Nature in Art, 1934, pp.48-51.

giovedì 14 maggio 2009

L'ARTISTA SECONDO I VEDA.
di Marco Ferrini.

Gli artisti hanno generalmente una sensibilità molto più sviluppata rispetto alla norma, ma il fatto di avere una percezione sensoriale più acuta non necessariamente aggiunge qualità alla vita se la persona non riesce a contestualizzarsi nel mondo, a capire chi è veramente e qual è la sua posizione nell’universo. Per esperienza clinica ho osservato che molte persone internate in ospedali psichiatrici hanno una sensibilità decisamente superiore alla media, a quella ordinaria, ma artista è qualcos’altro. Il fatto di percepire più intensamente, più profondamente, attiene semplicemente al piano degli indriya, ovvero al piano sensoriale. Possono esserci facoltà dei sensi più sviluppate, ma se queste facoltà non sono ben orientate, anziché procurare gioia ed aiutare nell’elevazione, possono spingere verso il basso, verso la degradazione. E’ vero che certe aberrazioni nel mondo moderno sono state proposte anche come arte, perché si è ricercata esasperatamente l’innovazione, ma si è perduto lo scopo cui l’opera d’arte dovrebbe essere destinata: far fare un salto di qualità alla consapevolezza. L’opera di un nevrotico, di un disturbato mentale, può essere anche qualcosa di accattivante, se si vuole anche di morbosamente affascinante, ma allo stesso tempo può mancare completamente lo scopo dell’arte così come concepito nella tradizione indovedica. Ciò che piace, l'esperienza estetica, si coniuga nei Veda all'esperienza etica, in quanto etica ed estetica sono indissolubilmente collegate e si arricchiscono in maniera complementare per raggiungere lo stesso scopo in comune: l'integrazione e l'armonizzazione della personalità per accedere alla consapevolezza della propria originaria natura spirituale, l'essenza del nostro sé e della vita. L'esperienza etica necessita di essere interpretata e seguita, emulata e sperimentata, e tramite l’arte possiamo fornire soluzioni, strumenti efficaci per lavorare sul carattere; quindi offrire immagini, forme, comunicare il desiderio di voler aiutare qualsiasi individuo che aspira a migliorare la propria posizione, a mettersi in cammino verso la perfezione. Il fascino artistico di un’opera deve attrarre ed ispirare verso una dimensione trascendente. Il modello estetico richiede creatività, rinnovamento continuo, la ricerca di punti di vista sempre più alti, ma senza il sostegno dell'esperienza etica queste prospettive superiori non si raggiungono e il sogno si esaurisce in uno smarrimento della coscienza e in una profonda delusione. Un artista, come ogni altro essere umano, dovrebbe cercare di ristabilire una relazione profonda con se stesso, con gli altri, con l'universo e con le forze che lo governano, con l'origine e lo scopo della vita, e produrre opere che siano frutto di questa armonizzazione. Ma l’artista è diverso dall’uomo comune? In realtà tutti noi siamo potenzialmente artisti, anche se gli spettacoli creati dagli umani – al contrario di quelli della natura - non sempre sono un'opera d'arte, perché l’alienazione è ormai diventata una malattia diffusa. La stravaganza, la smania di diventare famosi, la volontà di distinguersi ad ogni costo vanno a rafforzare l’affanno della cultura moderna. Non è un’interpretazione o un'espressione affrettata ed egoica che costituiscono la vera opera d’arte, ma è la profondità e la luminosità del mondo interiore che l’artista esprime, quando esso è in perfetta coerenza e identità con l’oggetto della sua espressione e quando essa si è radicata profondamente nel suo cuore. In quella fase del samyama che è la fase superiore dello yoga, il sadhaka o in questo caso l’artista si concentra sul proprio oggetto: vuole rendere ad esempio la musica di una cascata d’acqua o la musica non udibile all’orecchio fisiologico che accompagna l’aurora, o la musica che accompagna l’incontro tra due innamorati. Quando l’artista ha penetrato in sé e ha fatto suo con la concentrazione quel suono, quella visione, quel mondo, quando lo ha vissuto interiormente e ha sentito già quella musica dentro di sé, allora può tentare di offrirla agli altri. Se cerchiamo l’ispirazione, dobbiamo rivolgerci a quelle forme superiori di espressione artistica attraverso le quali colui che vede può far vedere ad altri. Ecco perché la pratica e la rigorosa aderenza a certi principi etici è fondamentale. Questi principi prima di tutto mirano alla purificazione degli organi sensoriali, poi alla purificazione della mente, poi alla purificazione dell’intelligenza. Quando la struttura psichica è purificata, la percezione del contenuto del nostro oggetto di contemplazione appare vivida, prorompente in tutta la sua realtà, come stagliata nel cielo con colori che vanno molto oltre il limitato settore di percezione condizionata. Nella tradizione dei Veda, l’artista esprime la propria arte seguendo dei canoni già presenti che fungono come il telaio con cui il soggetto tesse tutta la propria creatività. La fantasia indisciplinata che sfocia nell’aberrazione mentale o l’utilizzo artificioso e artificiale di sollecitazioni sensoriali sono ben lungi dalla vera arte così come intesa dalla tradizione indovedica; forse possono eccitare la mente dell’uomo moderno, ma sono molto lontane da una concezione e da un’applicazione dell’arte come Yoga che al contrario vede l’individuo perfettamente integrato con il progetto divino universale in armonia con la mente cosmica dell’Artista supremo.

Tratto dalla lezione dal titolo 'Arte come Yoga', Vicenza 21/09/2002.

venerdì 10 aprile 2009

COMUNICATO CSB PER IL TERREMOTO IN ABRUZZO.

Care amiche e amici,
in questa giornata di lutto nazionale ci uniamo al profondo dolore della popolazione dell’Abruzzo colpita dal terremoto.

Oltre ad un modesto contributo in denaro che abbiamo piacere di devolvere al finanziamento dei soccorsi, offriamo le nostre congiunte preghiere per tutte le vittime e per sostenere spiritualmente coloro che al momento vivono situazioni di grande difficoltà.

Con fede, rinnoviamo il nostro impegno nella diffusione di una cultura spirituale che possa aiutarci a superare anche le crisi più gravi.

Centro Studi Bhaktivedanta

giovedì 9 aprile 2009

ARTE COME YOGA.
di Marco Ferrini.

Arte come Yoga è una visione ed un progetto di vita i cui valori, veicolati dalla Tradizione Vedica, possono essere utilmente spesi nella vita di tutti i giorni. In Occidente, a partire dall’Ottocento positivista, è venuta a crearsi quasi una dicotomia tra religione e creatività, ed anche tra scienza ed arte, come se queste discipline, che indubbiamente parlano linguaggi diversi, fossero radicalmente separate, inconciliabili, incommensurabilmente distanti. Prevale anche oggi la tendenza a considerare la religione come ripetitiva, immobile, chiusa in se stessa, mentre l’arte come un processo dinamico, pulsante, innovativo, tracciando linee di separazione che sono invece estranee ai concetti di Arte e di Yoga così come intesi nel mondo culturale vedico. Nella Tradizione Vedica la vera Arte non prescinde dalla Spiritualità e la Spiritualità non esclude l’Arte autentica. L’Arte tradizionale indiana è veicolo della Spiritualità, la quale è ritenuta, in ultima analisi, il processo creativo per eccellenza che impegna il soggetto in una continua, dinamica, mai inesauribile ricostruzione armonica della propria personalità. In tale contesto l’Arte non si esaurisce in un effimero gusto estetico, che non lascia fondamento e che è destinato a spegnersi, sopraffatto da una miriade di altri gusti e forme ugualmente evanescenti. Nella drammaturgia, nella scultura, nella danza o nella musica tradizionale indiana, l’Arte ha funzione trascendente; la sua creatività si fonda su di un sublime scopo teleologico: la meditazione, dhyana, finalizzata alla riscoperta di sé e della propria relazione con il Divino. L’opera d’arte nasce dalla meditazione ed induce alla meditazione, al fine di rendere possibile - all’artista e allo spettatore - il guado da una “sponda” all’altra, da un livello di coscienza ad un altro ancora superiore, dalla percezione della forma alla percezione dell’essenza, oltre il gioco di apparenze dell’esperienza meramente sensoriale ed estetica. L’Arte, dunque, come strumento di riflessione, di crescita, di auto-superamento. Non svago o diversivo per sfuggire alla realtà, ma strumento di pensiero elevato per imparare a comprenderla e a modellarla; non causa di alienazione ma mezzo di ricongiunzione con la parte più profonda di sé, per un cammino di vita che possa dirsi effettivamente libero e creativo. La perfetta integrazione tra Arte e Yoga propria della civiltà indovedica, in cui lo Yoga si esprime attraverso l’Arte e l’Arte attraverso lo Yoga, risulta perfettamente evidente nello Yoga della Bhakti, il quale per eccellenza permette un rigenerarsi interiore in una progressiva riarmonizzazione tra razionalità ed intuizione, pensiero e sentimento, ragione ed immaginazione, e nel quale la percezione e l’interiorizzazione di determinati suoni e forme, pervasi di contenuti spirituali, assurgono a pratiche fondamentali della disciplina e del percorso terapeutico. La meditazione sul Mantra, ossia l’invocazione e l’ascolto di vibrazioni sonore intrise di significato spirituale, e la contemplazione e l’adorazione delle Murti, le forme che rappresentano il Divino, vengono infatti considerati nel Bhakti Yoga strumenti essenziali per l’elevazione della coscienza e la ricongiunzione con il proprio sé profondo e con Dio. Comincia così quell’affascinante viaggio che porta alle radici della genuina e più alta Creatività.

giovedì 26 marzo 2009

ILLUSIONI

Al di là di realtà psichica soggettiva e mutevole, esiste la Realtà eterna, inafferrabile per chi non ha strumenti per contemplarla. La maggioranza delle persone cerca di controllare gli altri per impossessarsi della loro energia, perché non sa di avere la Fonte inesauribile dentro di loro. Il mondo tridimensionale appare come un semplice riflesso della Realtà, un programma definito PRAKRITI creato dall’Intelligenza Cosmica. Quante delle nostre convinzioni più profonde siano frutto di una interprettazione soggettiva o un indottrinamento? Lo spettacolo “Illusioni” proposto dal laboratorio teatrale del Centro Studi Bhaktivedanta invita ad un viaggio negli spazi della coscienza per riflettere sulla natura della realtà.


mercoledì 18 marzo 2009

L'ESSENZA SUBLIME DELLA DRAMMATURGIA INDIANA.
UNA RIFLESSIONE SUL DRAMMA DI KALIDASA 'RICONOSCIMENTO DI SHAKUNTALA'.
di Tania Zakharova.


'Wouldst thou the young year's blossoms and the fruits of its decline And all by which the soul is charmed, enraptured, feasted, fed, Wouldst thou the earth and heaven itself in one sole name combine? I name thee, O Sakuntala! and all at once is said'. (Goethe)

“Ciò che affascina e incanta, ciò che appaga, fa estasiare e alimenta l’anima, ciò che armonizza la terra e il cielo” - così esprime Goethe il suo entusiasmo dopo aver letto il famoso dramma teatrale di Kalidasa, Abhijnanasakuntala (Riconoscimento di Shakuntala). Le opere di Kalidasa, che visse intorno al IV-V secolo d.C., sono riconosciute come l’espressione suprema dell’arte letteraria indiana, arte squisita, che richiede una conoscenza approfondita delle sue regole e dei suoi fondamenti teorici per essere apprezzata nei suoi molteplici sapori. Nel 1792 il famoso storico e scrittore russo N.M.Karamzin, pubblicando nella “Rivista Moscovita” alcuni episodi da “Riconoscimento di Shakuntala”, scriveva nell’introduzione: " …Quasi in ogni pagina del dramma trovavo altissime bellezze poetiche, la raffinatezza dei sentimenti, una tenerezza mite, eccezionale, inspiegabile, simile a una serata silenziosa di maggio, un'opera di una natura purissima e impareggiabile e d’arte elevatissima". Abhijnanasakuntala rielabora un noto episodio del Mahabharata dove il re Dushyanta, della dinastia lunare, incontrando l'affascinante Shakuntala, cresciuta nell’eremo del padre adottivo Kanva, si innamora della timida fanciulla e i due si uniscono con il matrimonio chiamato gandharva(1); prima di rientrare alla sua capitale il re promette a Shakuntala che ella diventerà la sua regina principale e le lascia in pegno un anello(2).
La fanciulla rimane in fiduciosa attesa ma un giorno incorre inconsapevolmente nelle ire di un vecchio asceta di passaggio che la maledice predicendo che sarà dimenticata dal suo sposo e potrà essere riconosciuta solo alla vista di un monile. Nel giorno dell’atteso incontro fra i due, Shakuntala, che nel frattempo ha perso il segno di riconoscimento, viene ripudiata e abbandonata. Dopo l’amara ripartita della sposa, Dushyanta ritrova l’anello che cancella la maledizione del momentaneo oblio. Afflitto dal rimorso postumo il nobile sovrano cercherà Shakuntala in cielo e in terra, finché non la rincontrerà insieme con il bambino speciale che le è nato da lui: Bharata, destinato all’impero universale. Nella drammaturgia indiana ogni spettacolo teatrale aveva inizio con una cerimonia religiosa di consacrazione dello spazio, detta purvaranga, consistente nell’invocazione di una Divinità. Lo spettacolo era suddiviso in anka, letteralmente “curve”, “parti” o anche “grembi” di numero variabile: la fine di ogni anka era segnalata dall’uscita di scena di tutti i personaggi. La vicenda narrata poteva coprire un arco di tempo anche molto ampio; per ragguagliare il pubblico sugli eventi intercorsi fra l’azione di un atto e quella di un atto successivo si poteva inserire una scena introduttiva o “di transizione” denominata viskambhaka. A conclusione del dramma, uno dei personaggi recitava, a nome degli attori, una stanza augurale conclusiva (bharatavakya) in cui chiedeva alla Divinità il benessere per il pubblico e per se stesso. Infatti, nella parte finale del dramma di Kalidasa il protagonista chiede la liberazione dal ciclo samsarico:

Si adoperino per il bene dei sudditi e sovrani,
la Musa dei dotti venerabili sia venerata; e anche per me
Dio…la cui potenza si diffonde ogni dove cancelli ogni rinascita.
(VII anka).


Diversi critici letterari hanno cercato di scoprire il segreto dell’eterna freschezza e irresistibile fascino del dramma di Kalidasa dietro le suggestive metafore e incantevoli stanze liriche. La traduttrice e studiosa della poesia indiana V. Mazzarino propone una interpretazione “metateatrale” dell’esperienza scenica: nel dramma Abhijnanasakuntala i confini tra i vari gradi di rappresentazione sembrano sfumare l’uno nell’altro, a lasciarsi varcare ripetutamente; l’accento è posto sull’esperienza rappresentata, quale sia il piano che la genera. Così in una delle scene lo spettatore si trova in un boschetto, coinvolto nel dialogo fra il re innamorato che indirizza gli epigrammi al personaggio-ape e l’affascinante fanciulla spaventata dall’ape… per scoprire poi che la fanciulla, boschetto e ape sono ritratti su una tavoletta dipinta. Il sovrano che regge in mano la tavoletta, immedesimandosi completamente con la sua rappresentazione mentale, scaturita dal ricordo, era “entrato” nel dipinto per rivedere la sua amata perduta a causa dell’oblio. Con lui, per quei brevi istanti, erano entrati nella dimensione mentale anche gli altri personaggi che poi tornano alla “realtà” del palcoscenico. In questo modo la moltiplicazione dei livelli d’esperienza coinvolge altre arti. Entro la “realtà” della rappresentazione scenica può emergere la “realtà” pittorica (la quale è anche la forma concreta che hanno assunto il ricordo e il desiderio). Canto, pittura, poesia; azione, ricordo, desiderio, stato contemplativo: lo spettacolo scorre liberamente da un piano all’altro, e ogni nuova rappresentazione svela una nuova realtà. La tradizione letteraria indiana ha sviluppato mirabilmente l’arte di raffigurare più dimensioni contemporaneamente, privilegiando la presentazione dell’esperienza “rimandata” o comunque in qualche modo “velata” piuttosto che quella in atto. Scrive V. Mazzarino nel suo articolo “La poetica del non-evento(3)”:

”Le emozioni suscitate da una poesia indiana sembrano fatte di allusioni, ricordi, desideri; il fatto concreto rimane come dietro un velo. Nulla di più lontano, si dirà, dal “realismo” così a lungo caro all’Occidente: eppure, la potenza di quelle allusioni e di quei desideri può superare l’efficacia di qualsiasi descrizione realistica. Poiché, se non c’è l’evento concretamente ricostruito come dinanzi ai nostri occhi, c’è la particolareggiata, concretissima descrizione del “non-evento”.

La poetica dell’esperienza “velata” trova, la sua esplicita formulazione in uno dei più grandi trattati di critica letteraria dell’India classica: lo Dhvanyaloka di Anandavardhana (IX sec.d.C.). Secondo l’autore l’essenza del sentimento (rasa) è significato dell’espressione poetica in quanto non è direttamente espresso, in altre parole, non è necessario che il personaggio esprima sentimenti amorosi perché lo spettatore di un dramma “senta” l’amore rappresentato dal poeta. Una delle più famose scene di Kalidasa ruota attorno al ricordo del re del suo incontro con Shakuntala:

Di quando in quando le dita
coprivano il suo labbro;
bello era, con i suoi impercettibili “no”,
il volto di lei dalle lunghe ciglia,
piegato sulla sua spalla;
io lo sollevai appena, ma non lo baciai.


Per un osservatore occidentale i drammi indiani appaiono come poveri d’azione: gli eventi principali dell’intreccio spesso hanno luogo fuori scena. Sulla scena i personaggi rappresentano immagini, situazioni che anticipano l’azione o la commentano. L’azione drammatica è data dal dispiegarsi e dal confrontarsi di azioni mentali: evocazioni, visualizzazioni, ricordi, riflessioni. Nel dramma di Kalidasa troviamo una interessante riflessione sull'“errore della mente” (manaso vikarah) che in quest'opera motiva il comportamento del re con Shakuntala. Cercando di scoprire l’enigma dell’oblio davanti all’evidenza dei fatti, Dushyanta riflette:

E' come se, avendolo dinanzi agli occhi,
uno dicesse: “Non è un elefante”; mentre poi quello si allontana,
sorgesse il dubbio; nel vedere infine solo le orme,
si radicasse il convincimento: tale è stato l’errore della mia mente!


L’autore rivela una profonda conoscenza della natura della mente sottolineando l’importanza della sua purificazione per percepire direttamente la Realtà:

L’immagine non prende forma su uno specchio
la cui limpidezza sia appannata da polvere:
ma quando quello è pulito, essa trova luogo facilmente.


Nella sua analisi della drammaturgia indiana V. Mazzarino osserva che “la poesia dell’India classica, dotta, cortese e raffinata, non produce fughe surreali in regni di favola, o mistici rapimenti in sfere estranee alle esperienze dei sensi”. Mentre la prima parte dell’osservazione risulta molto perspicace, non si può dire altrettanto per quanto riguarda la seconda. L’artista nella tradizione, sia che si tratti di teatro, scrittura, danza, musica, pittura o scultura, in virtù dell’aderenza alle leggi dell’ordine universale attraverso le proprie opere cercava di armonizzare tutti i piani antropologici dell’essere umano. In questa visione l’autentica opera d’arte è considerata quella che attraverso il linguaggio simbolico educa la mente a percepire concetti di alta psicologia, invitando nel mondo della trascendenza oltre che nella mera rappresentazione sensoriale. In diverse scene dell’opera di Kalidasa viene enfatizzata la rigorosa e spontanea aderenza dei personaggi alle leggi divine universali (dharma), che sostanzia il loro comportamento etico.
Abhijnanasakuntala sembra un racconto a cornice: ogni dimensione presentata nell’opera appare racchiuso dentro un altro, superiore, livello metatemporale che rimane nella mente, come traccia, dove dietro epigrammi di una incomparabile fragranza poetica che dolcemente attirano nel mondo di sentimenti, pensieri, visioni e spazi metafisici si intravedono i barlumi di una realtà ultima, splendente nella sua rivelazione archetipica. Uno dei concetti più importanti del Natyashastra, il Trattato Vedico di Teatro, Musica e Danza, è l’esperienza dei rasa. “Natya” è essenzialmente rasa, presentato tramite situazioni, mimesi, stati emotivi transitori; è un sentimento che non può essere sperimentato per via di nessun mezzo della conoscenza empirica, ma solo grazie alla sensibilità estetica. Rasa, l’oggetto estetico di natura trascendente, rappresenta l’essenza dell’arte drammatica. Secondo la filosofia dell’India classica l’arte è un modo di vivere, arte è rito, arte è esperienza estetica elevata e soprattutto è la via per accedere alla natura spirituale. Lo scopo dell'arte autentica è elevare l’essere umano al livello del Trascendente, far emergere le qualità intrinseche dell’anima e sperimentare i sentimenti che la ricollegano alla Fonte suprema, Dio. Anelando nelle sue poesie alla ricerca della Verità ultima, P.B. Shelley propone questa suggestiva metafora:

“La vita, come una cupola di vetro multicolore,
Tinge il candido fulgore dell’Eternità.”


Colui che scopre il segreto dell’arte autentica potrà vedere oltre i frammenti colorati della vita umana e gustare l’essenza sublime della drammaturgia indiana.

(1) Tipo di matrimonio valido a ogni effetto, che consiste nell’unione dei due sposi senza il previo accordo delle famiglie.
(2) La versione di Kalidasa presenta alcune importanti variazioni rispetto al racconto del Mahabharata, dove non viene menzionata la maledizione che nel dramma motiva l’oblio del re, e il motivo dell’anello come segno di riconoscimento.
(3) Il Riconoscimento di Shakuntala, introduzione; Adelphi edizioni, 1993.

mercoledì 4 marzo 2009

MICHELANGELO, UN MADRIGALE,
L'ESPERIENZA ESTETICA E LA MISTICA NEOPLATONICA.

di Fabrizio Fittipaldi.


Le cose che occhio non vide,
e che orecchio non udì, e che mai salirono nel cuore dell’uomo, sono quelle che Dio ha preparato per coloro che lo amano.
San Paolo, Lettera ai Romani.

Lo scopo di questo breve commento è di portare l’attenzione sulla dimensione mistica e devozionale che pervade l’opera e la personalità di Michelangelo e che rappresenta il fulcro di tutta la sua arte. Sempre più spesso l’approccio alle grandi personalità creative di ogni campo (dell’arte, della filosofia, della scienza) è pregiudizialmente determinato a ignorare, come aspetti secondari e quasi folkloristici la vita interiore e le realizzazioni spirituali che sono in realtà l’unico soggetto di ogni opera veramente creativa.

La composizione di questo madrigale risale a un periodo compreso tra il 1541 e il 1544, quando il grande artista e genio del Rinascimento era prossimo ai suoi settanta anni di età.

Per fido esemplo alla mia vocazione
Nel parto mi fu data la bellezza,
Che d’ambo l’arti m’è lucerna e specchio.
S’altro si pensa è falsa opinione.
Questo sol l’occhio porta a quella altezza,
Ch’a pinger e scolpir qui m’apparecchio.

Se giudizii temerarii e sciocchi
Al senso tiran la beltà, che muove
E porta al cielo ogni intelletto sano,
Dal mortale al divino non vanno gli occhi
Infermi, e fermi sempre pur là, dove
Ascender senza grazia è pensier vano.

La “bellezza” di cui ci parla Michelangelo non è mortale (“Amor, la tua beltà non è mortale”: così scriveva una decina d’anni prima) e neanche indica il talento o la capacità di osservare attentamente e registrare le proporzioni e le armonie delle cose del mondo. Piuttosto rimanda a una luce interiore che è “esemplo”, guida, faro alla sua vocazione artistica. È espressione della multiforme vitalità dell’anima; una seconda e superiore vista; un senso spirituale. È innata e non frutto di studi: una sensibilità per il trascendente che corrisponde a purezza ed elevazione, morale e spirituale.

Questa luce interiore è sorgente dell’ispirazione e strumento per la riflessione, che non sorgono dall’esperienza mondana o dall’osservazione delle “cose mortali”. È solo questa luce che infonde all’occhio un potere divino e che permette all’artista di trascendere la bellezza effimera e sensoriale e di contemplare realtà superiori. E l’artista si fa, attraverso la sua opera, mediatore tra la dimensione trascendente e quella materiale.

In questo passaggio il poeta Michelangelo sembra voler riprendere alcune terzine dantesche:

Nel ciel che più della Sua luce prende
Fu’io, e vidi cose che ridire
Né sa né può chi di là su discende;
[…]
Veramente quant’io del regno santo
Nella mia mente potei far tesoro,
sarà ora matera del mio canto.(1)

È forte il contrasto tra l’“intelletto sano” di dantesca memoria e i “giudizii temerarii e sciocchi” di chi, privo di ogni capacità di discernimento, riduce la vertiginosa esperienza estetica all’angusta relazione, psicofisica e materialista, dei sensi con i loro oggetti corrispondenti (la vista con le forme e i colori, il tatto con le tangibilità, l’udito con i suoni…). L’"intelletto sano", purificato da una condotta di vita morale e virtuosa, e in armonia con le leggi universali che governano il cosmo, è degno e atto a essere ispirato e trasportato, dalla bellezza, nell’esperienza mistica ed estetica. Il dialogo riportato dal pittore portoghese Francisco de Hollanda testimonia questo pensiero di Michelangelo:

"Non basta ad un pittore per imitare in parte la venerabile immagine del Signor Nostro, essere un grande maestro, ma deve tener buona vita e, se possibile, essere santo, acciocché il suo intelletto sia ispirato dallo Spirito Santo… Perché molte volte le immagini male dipinte distraggono e fanno perdere la devozione, almeno a quelli che ne hanno poca; e al contrario quelle che sono divinamente dipinte anche ai poco devoti e pronti a ciò, provocano e traggono le lacrime".

Anche secondo le teorie del frate domenicano Girolamo Savonarola, che influenzò profondamente la vita di Michelangelo, esiste una strettissima corrispondenza tra il livello di coscienza sviluppato dall’artista e la capacità dell’opera sua di ispirare o no valori trascendenti, nella prospettiva di un’arte che sia al servizio della fede e della spiritualità.

La teoria di Michelangelo sulla scultura ripropone il medesimo principio, quando ci parla di un “concetto” che è già circoscritto nel blocco marmoreo, ma imprigionato nel “soverchio” della pietra. La figura è intrappolata nel marmo, così come l’anima nella prigione del corpo e della mentalità egoica; la scultura, come la vita, è un percorso di purificazione e di liberazione dai soffocanti condizionamenti della materia. È lo stesso artista che a qualche anno di distanza, rivolgendosi al Signore scrive in un sonetto:

Tu desti al tempo ancor quest’alma viva
E ‘n questa spoglia ancor fragil’ e stanca
L’incarcerasti e con fiero destino.

Michelangelo - Prigione detto lo Schiavo che si desta (Firenze, Galleria dell'Accademia, 1520-32).

In una composizione successiva mette l’accento sulla potenza e pericolosità dei condizionamenti psichici e in particolare di quel deviato sentimento di amore rappresentato dall’attaccamento alla falsa immagine di se stessi (l’amor proprio):

Manca la speme, e pur cresce il desio Che,
da Te, sia dal proprio amor disciolto.


Quando, a proposito della poetica di Michelangelo, si parla dell’immagine interiore, non ci si riferisce tanto alla teoria della figura contenuta nella pietra, ma piuttosto all’“immagine del cor” che l’artista, purificato da una vita regolata e virtuosa, realizza e custodisce nell’anima sua e la cui natura e bellezza trascendono tutto ciò che si può trovare nel mondo visibile. L’opera stessa, anche se compiuta e definitiva, non può che essere un debole riflesso di quella divina idea ed è per questo che Michelangelo, come ci spiega il suo discepolo Ascanio Condivi, “poco si sia contentato delle sue cose, e che sempre l’abbia abbassate; non parendogli che la mano a quella idea sia arrivata, ch’egli dentro si formava”. È proprio questa eterna tensione tra spirito e materia che trova la più eccelsa espressione nell’insuperabile incompiutezza che caratterizza le sue opere scultoree più mature.
Michelangelo - Pietà Rondanini (Milano, Castello Sforzesco 1552-64).

Ammorbato dagli errori e dal peccato e coperto dalla materia, tanto da essere diventato cieco e insensibile alla propria intima natura spirituale, l’individuo ha ormai sviluppato un’alterazione della propria struttura psichica -originalmente orientata alla contemplazione del divino- e non ha più accesso alla dimensione spirituale. È follia pensare di raggiungerla col molto osservare o col molto studiare: solo Dio, per la Sua inconcepibile misericordia, concede al Suo devoto la visione e l’esperienza della Realtà suprema, così come hanno testimoniato mistici di tutti i tempi e di tutte le religioni.

È in questo regno trascendente che l’arte dimora, rivelando così la sua natura assolutamente spirituale; e “dal ciel seco / Ciascun la porta”, canterà il poeta Michelangelo.

Arte e spiritualità!

Arte è spiritualità!

Ogni creatività che sia ignara di questa ontologica relazione non potrà che essere una creatività “in-ferma”, non stabilita nella Realtà e nella consapevolezza di sé. E “infermi” sono gli occhi (lucerne dell’anima) di chi, invano, tenta l’assalto al divino, fissando il proprio sguardo, tutto umano, verso l’orizzonte trascendente.

(1) Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, versi 4-6 e 10-12.


Riferimenti audio e bibliografici:

Anthony Blunt, Artistic Theory in Italy 1450-1600, London, 1940.
Marco Ferrini, Arte come Yoga, Vicenza (Auditorium del Conservatorio di Musica), 21/09/2002.
Marco Ferrini, Il Viaggio di Dante e la Bhagavad-gita. Paradiso. Pinarella di Cervia - Ravenna, 04/2007.