lunedì 16 febbraio 2009

LE DOMANDE ETERNE DELL'ANIMA ETERNA.
IL TEMA DELL'IMMORTALITA' NELLA VITA
E NELLE OPERE DI LEV TOLSTOJ.
di Tania Zakharova.

A cavallo dei secoli XIX-XX nell’ambiente ortodosso della Russia correvano voci che il noto scrittore Lev Tosltoj avesse visitato Belovodia, un paese mitico che custodisce nella forma originaria i trattati dottrinali e i riti dell’autentico cristianesimo. La descrizione del regno di Belovodia ricorda i racconti vedici che parlano dei saggi illuminati sull’ Himalaya. Ma anche se Lev Nikolaevic Tolstoj non era mai stato sull’Himalaya, i concetti vedici, che negli ultimi anni della sua attività letteraria attraversano come un filo rosso le sue opere, furono il frutto di uno studio approfondito dei testi vedici dell’India antica. Lo scrittore ammirava i Veda e riteneva che questi testi sacri veicolassero la conoscenza di Dio in una forma ideale: "Gli Inni Vedici trasmettono sentimenti molto elevati e ciononostante la loro sublime bellezza è comprensibile per tutti, sia per le persone colte che per quelle poco istruite. Se lo scopo dell’arte è quello di trasmettere i sentimenti, che sorgono dalla coscienza religiosa, allora come può essere non compreso il sentimento basato sulla religiosità, ovvero sul rapporto dell’uomo con Dio?"(1). I Veda indubbiamente hanno lasciato una forte impronta sullo stile del famoso scrittore russo. Il dirigente della casa editrice “Intermediario”, S.N. Durylin, ricorda: "Il suo linguaggio era brillante, espressivo e chiaro; con competenza e semplicità poteva parlare di Kant, di Tiutcev o di filosofia del Vedanta.” Lo scrittore indiano Premcand notò che "alcuni racconti di L.Tolstoj raggiungono una tale altezza che viene naturale pensare che siano stati tratti dalle Upanishad ". E in effetti in molte opere di Tolstoj vengono trattati temi che lo scrittore aveva attinto dalla letteratura vedica. Lev Nikolaevic Tolstoj fu un lettore appassionato delle opere dell’India classica come il Mahabharata e il Ramayana(2). Ma soprattutto conosceva ed amava la quintessenza dei Veda: la Bhagavad-gita. Esprimendo per quest’ultima il più alto apprezzamento spesso faceva rimandi a questo grande testo nei suoi diari e nelle sue lettere. Nelle raccolte “I pensieri dei saggi per ogni giorno”, “Per l’anima”, “Il sentiero della vita”, l’autore ha incluso diverse massime tratte dai Purana, dalle Upanishad, dalla Bhagavad-gita, dal Mahabharata e dalla Manu-smriti. L’interesse del famoso scrittore russo per i Veda non si esauriva mai, ma lo studio più approfondito dell’antica filosofia indiana fu da lui svolto nel periodo della sua crisi esistenziale fino alla fine degli anni settanta-inizio anni ottanta, quando Tolstoj sentì la necessità a intraprendere una seria ricerca spirituale alla scoperta del senso della vita. Nel 1907, nella lettera a Baba Premanand Bharati, Lev Tolstoj espresse la convinzione che "la religiosa, metafisica idea di Krishna rappresenta l’eterno e universale fondamento di tutti gli autentici sistemi filosofiche e di tutte le religioni" (1-77, pag.36). Molte dottrine vediche sono state comprese da Lev Nikolaevic grazie allo studio dei lavori di noti scrittori, filosofi e pensatori (sia antichi che moderni), la cui concezione del mondo è stata improntata alla filosofia vedica. Fra i grandi nomi menzionati spesso nei libri di Tolstoj troviamo Pitagora, Platone, A. Silesius(3), Emerson, Thoreau, ma in modo particolare lo scrittore rileva Arthur Schopenhauer e Kant: Nel 1869 descrivendo a Fet la sua traduzione in russo dell’opera “Il mondo come volontà e rappresentazione”, Tolstoj scriveva: “Non so se cambierò mai la mia opinione, però al momento sono sicuro che Schopenhauer è uno dei più grandi geni dei nostri tempi”. Successivamente, analizzando i concetti di Schopenhauer noterà che “Il cuore della sua filosofia contiene un tragico errore, per provare il quale è stato sprecato un enorme talento e genio; l’errore che la vita non ha senso. Ma il senso della vita consiste proprio nell’eseguire la volontà dell’Ente Supremo, seguire la propria destinazione e lasciare questo mondo" (22,с.248). Numerosi ricercatori dell’attività letteraria di L.Tolstoj traggono dalle sue opere una tavolozza ricca e variopinta di concezioni filosofiche. Sia nelle opere che nella vita, Tolstoj è sempre stato un appassionato ricercatore della Verità. Man mano che cambiava la sua visione del mondo, nel corso degli anni, gli scritti che uscivano dalla sua penna si riempivano di nuovi contenuti. Già nella trilogia “Infanzia, adolescenza, giovinezza” - la prima opera che gli portò fama letteraria - Lev Тоlstoj affronta uno dei fondamenti della filosofia vedica: i quesiti "sulla destinazione dell’uomo, sulla vita futura, sull’immortalità dell’anima" (2-1,pag.165). I Veda in tutta autorevolezza affermano che la nostra personalità presente si è formata in base alle nostre vite passate; tutte le esperienze precedenti, tutti i pensieri, le impressioni ricevute sono impressi nelle profondità dell’inconscio. A volte la memoria delle vite precedenti arriva alle porte della nostra esistenza presente: "All’improvviso ho sperimentato una sensazione particolare: ho rivissuto un episodio, una ripetizione di quello che mi era già successo: e anche in quell’occasione cadeva una pioggia leggera e il sole tramontava dietro le betulle" (2-1,pag.266). Queste emozioni del giovane protagonista dell’opera autobiografica di Tolstoj, Nikolenka, sono un tipico esempio di deja vu - un sentimento di qualcosa di già vissuto provocato dall’esperienza delle vite passate. Ed ecco come Nikolenka Irteniev giunge all’idea di reincarnazione: "Ecco la vita – e ho disegnato sulla lavagna una figura ovale. Dopo la vita l’anima trasmigra nell’Immortalità; ecco l’immortalità – e ho tracciato una linea da una parte della figura fino all’estremità della lavagna. E come mai dall’altro lato non c’è una linea simile? E’ vero, come può esserci immortalità da un lato solo? Sicuramente esistevamo prima di questa vita anche se ne abbiamo perduto il ricordo " (2-1,pag.165). In uno dei suoi romanzi più famosi, "Guerra e pace", lo scrittore esplora le dinamiche di lotta interiore, del conflitto intrapsichico che avviene in ciascun individuo e che in ultima analisi si esplica nella forma di guerra nel mondo esterno. Il celebre romanzo è ricco di riflessioni sulla collocazione dell’uomo nell’universo. Il tema della trasmigrazione dell’anima è un motivo ricorrente in quest’opera letteraria. Natasha, una delle giovani protagoniste del romanzo, rivolgendosi ai suoi amici Nikolai e Sonia, rivela: “A volte uno ricorda e ricorda, finché non arriva a ricordare quel che aveva sperimentato prima di nascere in questo mondo… Se l’anima è immortale… e io vivrò per sempre.. vuol dire che ho sempre vissuto prima, ho vissuto l’intera eternità ". - Questo fenomeno si chiama metempsicosi(4), - disse Sonia che sempre studiava bene e ricordava tutto” (3-1,pag.614). Anche Dolly Oblonskaya nel romanzo "Anna Karenina", nei suoi intimi colloqui filosofici con la sorella, la madre ed alcuni amici, spesso li sorprende con il suo libero pensiero nei confronti della religione: “Aveva una sua strana religione di metempsicosi, nella quale credeva fermamente senza preoccuparsi troppo dei dogmi della Chiesa" (2-8,pag.290). Dopo innumerevoli nascite e morti, l’essere vivente, incarnandosi in un corpo umano, acquisisce la possibilità di porre domande, che si sono presentate a Pier Bezuchov in "Guerra e pace": "Che cosa dobbiamo amare e che cosa odiare? Per che cosa viviamo e che cos’è il nostro “io”? Che cos’è la vita e cos’è la morte? Che cos’è quella forza misteriosa che dirige tutto?" (3-1, pag.408). La millenaria Psicologia Vedica concentra l’attenzione su tutti i piani dell’essere umano, inteso e trattato come un organismo bio-psico-spirituale. Come insegna il Samkhya infatti, i costituenti della personalità umana sono lo spirito o purusha e l’apparato psicofisico: corpo e mente. Il sé empirico (jiva-bhuta) è un insieme di spirito cosciente e di materia priva di coscienza. Il corpo fisico grossolano è composto da 5 elementi fisici (terra, acqua, fuoco, aria, etere), mentre il corpo sottile include mente, intelletto, falso ego e le dieci facoltà sensoriali esterne. L’esperienza nel mondo fenomenico appartiene al corpo sottile, che è il primo a formarsi in base alle tendenze accumulate nel corso delle vite precedenti, e non al corpo fisico che perisce con la morte. La natura ontologica del purusha (o atman) è immortalità, coscienza e beatitudine. Il piano spirituale è caratterizzato appunto da ananda, una gioia profonda che si espande dentro e fuori. Un’identificazione totalizzante con lo strumento corporeo e psichico ostacola la comprensione della vita, così come la comprensione e l’accettazione del fenomeno morte. Che cosa può soddisfare l’inestinguibile necessità dell’animo umano di realizzare la propria essenza spirituale? "Nell’uomo è insita la necessità di felicità; quindi essa è lecita. Se la soddisfiamo egoicamente, ovvero cercando ricchezza, fama, comodità, potrebbe succedere che le circostanze esterne non ci permetteranno di soddisfare tali desideri, dunque sono proprio questi desideri che sono illeciti e non l’anelito alla felicità. E allora quali sono i desideri che possono essere soddisfatti sempre, a prescindere dalle circostanza esterne? Quali? Amore, abnegazione" (2-3,pag.227). Ferito gravemente nella battaglia di Borodino, Andrei Bolkonskij, uno dei personaggi centrali di “Guerra e Pace”, si sente illuminato da una realizzazione: “Si è rivelata a me una felicità nuova, imprescindibile dall’uomo, una felicità al di fuori delle influenza esterne, la felicità inerente solo all’anima… Ho sperimentato quel sentimento d’amore che è l’essenza stessa dell’anima… Amare tutto – amare Dio in tutte le manifestazioni. Si può amare la persona cara con l’amore umano; ma amare il nemico è possibile solo con l’amore divino" (3-2, pag.375.). La persona separata da Dio non può essere felice. Su questo riflette la contessa Maria - personificazione letteraria della madre di Tolstoj : "Nel corso della vita la contessa Maria era sempre più stupita dalla miopia della gente che cerca qui, sulla terra, il godimento e la felicità: la gente che lavora, soffre, lotta e fa del male a sé stessa e agli altri solo per raggiungere questa felicità impossibile, illusoria(5) e peccaminosa" (Guerra e Pace/3-1,pag.572). I testi vedici affermano che la realizzazione della propria essenza immortale è possibile solo attraverso la purificazione e la liberazione dalle identificazioni della personalità temporanea, quindi attraverso la trasformazione di tutte le energie dell’essere. Quando si comincia a comprendere la natura dell’anima, la vita si presenta in tutta la sua sconfinata libertà. Dice Pier in “Guerra e Pace” : "Sento che non solo non posso cessare di esistere come niente cessa di esistere nel mondo, ma che sono sempre stato e che sarò per sempre.” (3-1,с.457) . “Sappi che non può essere distrutto ciò che pervade il corpo. Nessuno può distruggere l’anima eterna” – afferma la Bhagavad-gita (II.17). A causa della posizione marginale del jiva-bhuta la permanenza dell’eterna essenza spirituale nel corpo materiale temporaneo sembra innaturale, conflittuale di per sé. Tolstoj spesso sottolinea questa incompatibilità: Andrei Bolkonskij, ascoltando il canto di Natasha, si sente un nodo alla gola: "Soprattutto sentiva che gli veniva quasi da piangere per questa vividamente percepita, drammatica contraddizione fra qualcosa di infinitamente grande e indefinibile che era in lui e qualcosa di stretto e carnale che si sentiva di essere" (3-1,pag.549). Il conflitto fra la natura superiore e quella inferiore dell’essere umano comprende diversi aspetti. Le tentazioni del mondo fenomenico possiedono una forza magnetizzante e sono difficili da superare: "La carne spinge all’appagamento dei desideri materiali e lo spirito illuminante anela a vivere per Dio, per gli altri, e la risultante di questo processo è la vita non più animale, e più ci si avvicina a Dio, più si diventa illuminati. E quindi più cercheremo di vivere per Dio, più velocemente percepiremo la nostra parte nobile, mentre il lato animale sfumerà da sé."(6) La lotta interiore di un ricercatore spirituale diventa più difficile in una società assorta nella gratificazione dei sensi. Il protagonista del romanzo "La Resurrezione", Dmitrij Nechliudov riflette: "Quando crediamo nel sé dobbiamo scegliere e prendere decisioni non a favore del proprio io animale, che cerca i piaceri facili, ma quasi sempre contro di esso; se dovessimo seguire la massa, non rimarrebbe più niente da decidere, già tutto è stato deciso, e sempre deciso contro l’io spirituale e a favore dell’io animale" (2-13,pag.53). In una delle storie del celeberrimo Mahabharata, alla domanda di Yamaraja, il “governatore” del regno della morte, - qual è la cosa più sorprendente in questo mondo? – il saggio re Yudhisthira risponde: La cosa più sorprendente è che se anche tutti i giorni vediamo morire innumerevoli creature, pensiamo ed agiamo come se il nostro corpo vivesse per sempre! Nella concezione materialistica della vita, le persone hanno il terrore della morte e cercano di negare questo fenomeno attuando una rimozione: "Petr Ivanovic cominciò a chiedere i particolari della dipartita di Ivan Ilyic come se la morte fosse un’avventura propria solo ad Ivan Ilyic e per niente riguardante lui "( La morte di Ivan Ilyic /2-12,pag.60). Gli eroi di Tolstoj spesso pongono domande sulla destinazione ultima dopo la dipartita: "Dove mi troverò quando non sarò più qui ?" (La morte di Ivan Ilyic /2-12,pag.85). Secondo la filosofia dei Veda esistono infinite dimensioni di coscienza nelle quali può trovarsi l’essere vivente dopo la sua dipartita dal mondo fenomenico; la morte rappresenta solo un passaggio in una di queste dimensioni governate dalle leggi Divine. Il concetto di morte come forma di transizione in un’altra dimensione di esistenza e come possibilità di liberazione dall’imprigionamento materiale imprime un'altra prospettiva di vita. Nel testo non finito “Gli appunti postumi dell’eremita Fiedor Kuzmitc”, incontriamo le seguenti riflessioni: "Prima tante volte pensavo che l’uomo non può fare a meno di desiderare… tutta la vita ruota attorno al desiderio. E mi è venuto in mente che se tutta la vita è sorgere di desideri e la gioia della vita consiste nel loro appagamento, forse dovrebbe esistere un desiderio proprio di ogni essere umano, sempre, e che potrebbe essere sempre esaudito? E per me è diventato chiaro che questo sarebbe possibile per un uomo che desidererebbe la dipartita. Tutta la sua vita sarebbe un avvicinarsi a questo desiderio, non il desiderio della morte in sé, ma di quel fluire della vita che porta al trapasso. Questo fluire è la liberazione dalle passioni e dalle tentazioni di quell’essenza spirituale che dimora in ogni uomo. Ora, liberandomi da una parte di quello che mi bloccava, che mi nascondeva la natura dell’anima, la sua unità con Dio, comincio a realizzare questo con chiarezza. Se avessi posto come il bene supremo la liberazione dalle passioni, l’avvicinamento a Dio, tutto quello che mi avvicina alla morte, la vecchiaia, le malattie, sarebbe stato l’appagamento del mio principale, unico desiderio" (17, pag.160). In modo particolare L.Tolstoj ha cercato di risolvere il mistero della morte negli ultimi anni della sua vita, giungendo alla conclusione che la morte è una forma che il Signore prende per mostrarsi agli atei, e che l’unica possibilità di liberarsi dalla paura della morte è avvicinarsi a Dio. Il grande scrittore è stato coerente con la sua ricerca filosofica e le sue realizzazioni. Citiamo di seguito alcune righe tratte dal suo diario, scritte poco tempo prima del suo trapasso, nel 1909: “Non sto bene, sento la debolezza del corpo, e così semplice, chiara e facile sembra ora la liberazione dal corpo – non la morte, la liberazione”. “Morendo, si applica lo sforzo maggiore sulla liberazione dell’anima attraverso l’amore”. “Ultimamente ho una febbre alta costante, forse sto per morire. Stranamente non ho paura, ma una specie di intensa curiosità”. “Sento nell’anima qualcosa di nuovo, di buono, lontano dal samsara, e molto, molto gioioso”.


(1) Che cos’è l’arte?/1-30, pag.109.
(2) Nella biblioteca di Iasnaya Poliana è stata conservata fino a oggi l’edizione del Ramayana (in lingua francese) in due volumi con gli appunti in matita fatti da L.Tolstoj.
(3) Angelus Silesius (Iogann Sheffler 1624-1677), teologo e mistico tedesco che ha descritto le cinque fasi per avvicinarsi a Dio, cominciando dal ruolo del servitore, amico, figlio, fino al rapporto con Dio in qualità di fratello e amante. Questa dottrina, insolita per il Cristianesimo, assomiglia molto alla concezione vedica dei rasa.
(4) Dal greco metempsychosis – trasmigrazione dell’anima.
(5) I Veda chiamano la felicità materiale capala sukha: temporanea, effimera, quindi illusoria.
(6) “La luce che illumina nel buio”/2-11,pag. 211.

LA SCIENZA DELL'AMORE
O LA 'METAFISICA CONCRETA' DI PAVEL FLORENSKIJ.
di Tania Zakharova.

Dopo oltre cinquant'anni di oblio, Pavel A. Florenskij (1882-1937), una delle figure più significative e sorprendenti del pensiero religioso russo, viene riscoperto in gran parte d’Europa come uno dei maggiori pensatori del Novecento. Florenskij si rivela come un filosofo della scienza, fisico, matematico, ingegnere elettrotecnico, epistemologo, ma anche filosofo della religione e teologo, teorico dell’arte e di filosofia del linguaggio, studioso di estetica, di simbologia e di semiotica. Anche se con terminologia diversa le sue opere mostrano una sorprendente affinità con varie dottrine filosofiche del patrimonio vedico, soprattutto con alcuni concetti riscontrabili nella Bhagavad-gita (l’azione perfetta nel mondo sostanziata dalla giusta motivazione, la transitorietà dell’esistenza nel mondo fenomenico, la pratica spirituale costante, il distacco emotivo), delle Upanishad (la dottrina del dharma, quella del karma, l'unitarietà del tutto esistente, micro e macrocosmo) e del Vedanta (l'Amore per Dio come fine ultimo). L'appassionata ricerca nel campo scientifico, l'armoniosa sinergia tra filosofia, arte, teologia e scienza erano infatti per Florenskij finalizzate alla scoperta della Verità nell’Amore Divino. A poco a poco, in questi ultimi anni, sono tornate alla luce parti considerevoli della sua vastissima eredità culturale, lasciando emergere la grandezza del suo pensiero filosofico, teologico e scientifico. In effetti ciò che più sorprende dell'approccio scientifico di Florenskij è «la piena assimilazione dell’oggetto di ricerca, lontana da ogni dilettantismo, unitamente all’ampiezza dei suoi interessi scientifici, la sua rara ed eccezionale personalità enciclopedica la cui grandezza non possiamo nemmeno stabilire per mancanza di capacità equivalenti».(1) Lo stupore non è suscitato soltanto dall'incontro con la sua opera, che attraversa le molteplici forme dello scibile, ma soprattutto dalla sua vita, dall'integrità umana e spirituale della sua persona. Come tanti intellettuali russi della prima metà del XX secolo egli dovette condividere il tragico destino dei filosofi religiosi, travolti dalla macchina dittatoriale del regime stalinista. Ma né le persecuzioni, né la sua tragica fine potevano oscurare la nobiltà d’animo, le serenità interiore e l'insaziabile anelito alla conoscenza di questo autentico ricercatore spirituale. All’inizio degli anni venti Pavel A. Florenskij fu nominato responsabile della commissione per la tutela del patrimonio artistico del Monastero della S.S. Trinità e docente di “Analisi della spazialità nell’opera d’arte” presso gli Atelier superiori tecnico-artistici di Stato. Oltre agli studi di filosofia del linguaggio, di teoria dell’arte e della spazialità, raccolti in varie pubblicazioni di particolare rilevanza scientifica (cfr.Filo spartiacque del pensiero e il trattato su Lo spazio e il tempo nell’arte), Florenskij compie una serie di invenzioni tecniche nel campo della fisica (riguardanti in particolare le proprietà dei materiali elettrici ed isolanti) e cura la realizzazione di alcuni volumi della grande Enciclopedia tecnica (dal 1927 al 1933). Il lavoro scientifico che va dal 1920 all’arresto è molto vasto e comprende centinaia di voci: in esso Florenskij mai rinuncia alla sua concezione cristiana del mondo. Interessante è lo scritto Gli immaginari in geometria (Mnimosti v geometrii), che nella parte conclusiva si propone di rivalutare la concezione dello spazio nell’interpretazione della Divina Commedia di Dante Alighieri, con il sostegno teorico della teoria della relatività e della geometria non-euclidea. Alla decisione del Politburo di censurare la pubblicazione del lavoro, Florenskij risponde con una lettera (13.9.1922) nella quale afferma: «Elaborando una visione monistica del mondo, ed una concezione che richiede un rapporto concreto e pratico nei confronti della vita, ero e sono ostile all'idealismo astratto come alla metafisica astratta. Come ho sempre pensato, una concezione del mondo deve avere delle salde radici, concretamente vitali, e deve culminare in una incarnazione viva per mezzo della tecnica, dell'arte ecc.»(2) La sua opera si compone di numerosi scritti che potremmo definire di filosofia della scienza nei quali si moltiplicano i riferimenti ai più recenti sviluppi della matematica e della fisica, alla teoria delle funzioni e della relatività, come pure alla meccanica quantistica, e dai quali affiora una diversa considerazione scientifica della fisica teorica, della chimica e della matematica, considerate come linguaggi simbolici che implicano superamento di ogni visione meccanicistica e materialistica del mondo. Già dall’infanzia Florenskij adotta un approccio singolare nei confronti dei fenomeni della natura, caratterizzato dalla percezione interiore di una particolare presenza del mistero in ogni manifestazione naturale. Nel suo lavoro «Weltanschauung fiabesca»(3), l'attenzione al fenomeno particolare non perde mai di vista la visione d'insieme; sotto la “maschera” del visibile si cela sempre una realtà misterica invisibile. Florenskij era fermamente convinto che ogni autentico atteggiamento scientifico avesse origine dalla percezione della realtà celata e dall’interrogazione che questo suscita interiormente, verso la realtà conoscibile. Scrive alla moglie dal lager delle Solovki: «Colgo l'occasione per dire a te e ai bambini che tutte le idee scientifiche che mi stanno a cuore, scaturiscono dal mio sentimento per il mistero…Tutto ciò che mi viene suggerito da questo, rimane vivo nel mio pensiero e diventa, prima o poi, oggetto di uno sforzo scientifico»(4). Il mistero della natura è per Florenskij un sentimento attraverso il quale accedere alle forme di “cristallizzazione del pensiero”. Dal confronto con il mistero e con lo stupore da esso suscitato, egli avverte il vertiginoso senso dell’infinità e della trascendenza nascosto nelle cose ordinarie, cogliendo l'invisibile “interrelazione sostanziale” che unisce l'uomo alla natura e al mondo: «L’uomo è parte del mondo, ma allo stesso tempo l’uomo è complesso quanto lo è il mondo. Il mondo è parte dell’uomo, ma anche il mondo è complesso quanto lo è l’uomo» (Microcosmo e macrocosmo, III, pp. 440-441). La consapevolezza di questa invisibile interrelazione stimola il grande filosofo a intraprendere un'esplorazione della natura del tempo e dello spazio per uscire dai confini del mondo fenomenico. Questa ricerca lo porta alla scoperta di "uno spazio quadridimensionale di un ordine più alto che giace nel cuore e al di là del nostro mondo tridimensionale, la cui presenza è stata enunciata e studiata da molti filosofi, tra i quali Platone, F.W.J. Schelling e J.W. Goethe." Già nella sua prima grande opera La colonna e il fondamento della Verità (1914), lo scienziato offre la sua originale interpretazione della «molteplicità» temporale che, in fondo, rivela la sua idea del tempo. È un'interpretazione che parte da un importante presupposto: la pluralità degli elementi si trova nella Verità assoluta, in quanto l'alterità è solo l'espressione e la manifestazione dell'identità dello "stesso essere". Lo stesso presupposto vale nel caso della molteplicità temporale: ogni «altro» momento di tempo, pur diverso da «questo di adesso», è anche lo stesso momento «di adesso», poiché quello che si manifesta «come nuovo» è «vecchio» nella sua eternità. Tutto questo è possibile perché la struttura interna delle «profondità noumenali» della Verità (dell'Intero) è quella dell'Eterno e perciò sia «quello» che «questo», sia il «nuovo» che il «vecchio» non sono che l'espressione o la manifestazione di un'unica Realtà.(5) Perché il tempo -- scrive Florenskij-- è la forma della transitorietà dei fenomeni. Il tempo, chrónos, produce fenomeni, ma come Chrónos, il suo archetipo mitologico, divora i propri figli. L'essenza stessa della percezione sensoriale, di ogni manifestazione fenomenica sta nella transitorietà, cioè in una specie di dimenticanza metafisica. (6) Una transitorietà e dimenticanza che, da parte dell'uomo, vengono avvertite come un doloroso confronto con la sua fine sempre più prossima: la morte. La realtà della morte ricorda all'uomo il suo esistere nel tempo: “L'esistenza nel tempo è per natura sua un morire, un'avanzata lenta ma ineluttabile della morte. Vivere e andar morendo è la stessa cosa, e la morte non è altro che un tempo diverso, più teso, più effettivo, che attira maggiormente l'attenzione su di sé. La morte è un tempo istantaneo, il tempo una morte prolungata... La nascita e la morte sono i poli di un'unica realtà”. Secondo il teologo, queste esperienze confermano che per conoscere una cosa fino in fondo, nella sua integrità, occorre entrare nel suo «spazio quadridimensionale», dove viene vinta la suddivisione del tempo sensoriale, spazio che permette di vedere che tutto è correlato a tutto e che ciascuna parte viene determinata dalla totalità. Florenskij è convinto che questo non significa che l'uomo debba rinunciare alla conoscenza concreta, per rifugiarsi in un idealismo astratto. Perché se, da una parte, è vero che una realtà può essere contemplata empiricamente solo in successione, come una serie di momenti separati, è altrettanto vero che bastano questi momenti a fornire un concetto di un tutto unico di essa, di cui i momenti contemplati non sono che l'immagine. L'esistenza della Realtà divina presuppone o implica l'esistenza di una sfera di vita che ha una sua propria coordinata temporale, diversa da quella che normalmente adoperiamo per misurare la successione temporale. Il fatto che l'uomo possa almeno in parte assaporare una tale misura viene confermato dalla percezione del tempo che a volte si può fare nel sogno. Scrive il filosofo: “...non tutti, e nemmeno molti, hanno meditato sulla possibilità che il tempo trascorra a una velocità infinita. Ma intanto il tempo davvero può essere istantaneo e fluire dal futuro al passato, dagli effetti alle cause, teleologicamente, e ciò avviene appunto quando la nostra vita passa dal visibile all'invisibile”.(7) Questo passaggio, però, con il cambio della percezione del tempo si può sperimentare non solo nel sogno, ma anche in un'esperienza mistica. Colui che viene rapito verso le misteriose cime dell'Invisibile non pensa più di essere entrato in un mondo immaginario o capovolto. Trovandosi nella dimensione del mondo trascendente, che si lascia scoprire come più autenticamente reale di tutta la realtà, il mistico entra in una nuova dimensione di vita, quella di Dio. Il quale «è transtemporale», è «Colui che è nell'Eternità». Per Dio «il tempo è un unico «adesso» dato immediatamente in tutti i suoi momenti». (8) Ecco perché nell'esperienza mistica il tempo appare - come viene lucidamente colto già da Platone - come «un'immagine mobile dell'eternità». Per Florenskij la riflessione sul tempo scaturisce da una riflessione molto più ampia: quella riguardante il rivelarsi dell'Intero (Celoe), cioè della Verità, della Vita, nel mondo empirico. Un rivelarsi che ha come effetto la rifrazione dell'Intero nella moltitudine dei frammenti che, pur essendo da una parte indissolubili, sono dall'altra diversi al punto che, nei casi limite, due di essi possono apparire come due poli completamente antinomici, ma nel mondo “sovraempirico” i due poli raggiungono una coincidentia oppositorum. Seguendo il pensiero del filosofo : «nonostante il suo apparire nello spazio e nel tempo come un semplice frammento, l'Intero è, in realtà, un'unità compatta, permeando di sé le sfere sopra il tempo e sopra lo spazio, non avendo, in questo modo, né inizio né fine».(9) La vera conoscenza è la conoscenza essenziale della verità che avviene attraverso la partecipazione ontologica alla verità stessa; ciò implica, secondo Florenskij, l’accoglimento dell’Amore quale sostanza divina. La conoscenza non è un percorso puramente intellettualistico, «non è vorace possesso di un oggetto morto da parte di un soggetto gnoseologico predace, ma un atto che coinvolge la persona nella sua interezza, nella scoperta della sua natura divina, implicando un’autentica partecipazione alla vita di Dio-Amore". Attraverso l’esperienza dell’amore, si esce dall’empirico per entrare nel Regno della Verità ontologica. L’intera filosofia florenskijana è dischiudimento della vera Sapienza, nata dall’Amore divino nel suo incontro con l’esistenza umana, generando nella creatura il desiderio insopprimibile di riscoperta del suo cuore che risplende di quella Luce di Verità e Bellezza. Florenskij è tra i pochissimi pensatori cristiani del Novecento che è riuscito in questa delicatissima impresa di assumere l'esperienza teorica e pratica dell'amore come cardine di un nuovo pensare, evitando il rischio dei costrutti intellettualistici o delle fughe spiritualistiche. La filosofia della religione di padre Pavel ha infatti la sua chiave nell'amore come fulcro dell'esperienza rivelativa e della conoscenza. La filosofia per P.Florenskij va intesa come traduzione “di esperienze di realtà in esperienze di significato” e coinvolge tutto l’essere verso la ricerca della conoscenza integrale. Per il filosofo russo, la filosofia non è mai ornamento esteriore della vita, ma interiore bellezza, autentico richiamo alla persuasione, che fiorisce dall’intelligenza dell’amore, dall’incontro sempre nuovo e sorprendente tra l'esistenza e la “metafisica concreta”, nella quale - come egli sottolinea - «tutto è significato incarnato e visibilità intelligibile» (Porte regali, p. 174). Tutto è saldamente radicato nell’esperienza religiosa viva, nella quale confluiscono il rigore dell'interpretazione e lo stupore della contemplazione. Nel 1933 il teologo viene arrestato, condannato a 10 anni di lager e trasferito in Siberia nelle isole Solovki, ove al posto dell’antico monastero era stato allestito il primo gulag sovietico. Anche in questa penosa condizione riesce a trovare la forza per intraprendere accurate ricerche sul gelo perpetuo, sull’estrazione dello iodio e dell’agar-agar dalle alghe marine, giungendo persino a brevettare una decina di importanti scoperte scientifiche, a partire dal liquido anticongelante. Dopo una prima resistenza, padre Pavel accetta le false imputazioni, liberamente sceglie di sacrificare se stesso e di donare la propria vita per rendere possibile la salvezza di altri fratelli. Così viene fucilato l’8 dicembre 1937, in un luogo rimasto sconosciuto nei pressi di Leningrado. In una delle sue ultime lettere (22/24.11.1936) alla figlia Olga, rivela: “Il passato non è passato, in qualche modo continua ad essere reale e ad agire; a seconda delle circostanze, esso si rivela di nuovo come eterno presente... Come scrisse un poeta del XVII secolo: Die Rose, welche hier dein äußres Auge sieht, die hat von Ewigkeit in Gott also geblüht. La rosa che il tuo occhio esteriore vede, è fiorita in Dio dall'eternità.” (10)

(1) (Bulgakov, 1971, p. 128)
(2) V politotdel [Alla sezione politica] tr. it. in Dantismo russo e cornice europea, Firenze 1989, vol. II, p. 274.
(3) Ai miei figli, Moskva 1992, pp. 62.
(4) 1936, tr. it. “Non dimenticatemi”, p. 261
(5) P.A. Florenskij, La colonna e il fondamento della Verità, in russo, Moskva 1990, p. 46.
(6) P.A. Florenskij, La colonna..., p. 54.
(7) P.A. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull'icona, a c. di E. Zolla, Milano 1977, p. 21.
(8) P.A. Florenskij, La colonna..., p. 389.
(9) P.A. Florenskij, Sezione aurea applicata..., p. 470. cfr. La lettera del sacerdote P. Florenskij all'ieromonaco Antonio (Bulatovic), in Opere..., vol. 3 (1), p. 319.
(10) P.A. Florenskij, Opere in quattro volumi, vol. 4, in russo, Moskva 1998, p. 237.

venerdì 13 febbraio 2009

LA CATARSI NELL’OPERA TEATRALE.
di Tania Zakharova.

Prender, sì, da queste cose qui in terra belle;
ma avere in ogni istante,per suprema meta quella Bellezza assoluta, e salire su.
E sarà come per gradini di una scala ascendenti.
(Platone, Il Convivio)

Cosa succede nel momento magico in cui un attore teatrale dà vita ad un personaggio e cerca di coinvolgere il pubblico, di trascinarlo con sé entro un'altra dimensione coscienziale? Per secoli i grandi poeti, filosofi e artisti hanno indagato questo misterioso fenomeno da più prospettive: psicologica, filosofica, estetica, spirituale. L'arte, per Aristotele costituisce una forma di conoscenza che ricrea le cose secondo una nuova dimensione. Nel periodo classico la tragedia aveva per effetto la catarsi (dal greco kátharsis, purificazione). L’azione tragica proponeva una vicenda verosimile ad una condizione del vivere comune. Il susseguirsi di queste azioni era mirato alla risoluzione delle vicende messe in scena, e portava l’animo dello spettatore prima a indagare nel proprio io alla ricerca delle colpe, poi a liberarsi da questa condizione emotiva di disagio attraverso il fenomeno della catarsi. La Poetica di Aristotele individua la catarsi come il liberatorio distacco dalle passioni rappresentate nell'opera letteraria, distacco che interviene nel momento in cui si coglie la ragione celata negli eventi. La tragedia, rappresentando (imitando) fatti gravi, luttuosi, suscita forti emozioni, ma alla fine libera dal tormento “purificando il simile col simile”:

"…ora tratteremo della tragedia, ricavando dalle premesse precedenti la definizione della sua sostanza: tragedia dunque è mimesi di un’azione seria e compiuta in sé stessa, con una certa estensione; in un linguaggio abbellito di varie specie di abbellimenti, ma ciascuno a suo luogo nelle parti diverse; in forma drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni.”(1)


La catarsi trova, nella trattazione di Aristotele, una forma di applicazione generale tra le regole della sua estetica (intesa come formulazione del pensiero filosofico applicato alla realtà), poiché definisce scopo ed effetti dell’arte.
Platone utilizza questo termine per indicare la liberazione dal corpo per opera della morte, vista come ritorno dell'anima alla perfezione dopo la costrizione limitante vissuta nella materia. Ma in senso più ampio, Platone intende per "catarsi" un processo conoscitivo attraverso il quale ci si libererebbe dalle impurità per tornare ad uno stato di purezza originaria. Breuer e Freud negli Studi sull'isteria, riprendendo il significato aristotelico, avevano introdotto il termine abreazione(2) come processo terapeutico in cui si realizza una purificazione, una scarica emotiva degli affetti patogeni. La cura consentirebbe al soggetto di rievocare e perfino di rivivere gli eventi traumatici ai quali sono legati questi affetti e di “abreagirli”. Per lo psicoanalista Franco Fornari, Freud si rese conto che ciò che agiva terapeuticamente nel metodo catartico non era semplicemente la possibilità di rappresentare il fatto penoso obliato attraverso il ricordo, bensì il rivivere il ricordo nell’ambito di una relazione di transfert che, in quanto comporta affetti, implica una mescolanza di energia e di significazione. […] Il transfert contiene la situazione teatrica, nel senso che l’affetto per una persona trasforma la persona in qualcosa che sta al posto di un personaggio (1979, pp. 155-157).(3)
Nel 1921 Sandor Ferenczi, un allievo di Freud, indica nella “tecnica attiva” un intervento dinamico nel quale al paziente vengono assegnati ruoli e compiti, anticipando la tecnica psicodrammatica. Jacob L. Moreno affidò la funzione di abreazione alla drammatizzazione introducendo l’idea che la catarsi avviene nell'attore che è impegnato nella rievocazione, oltre che nello spettatore. Recitando situazioni passate, presenti o future-immaginarie della propria vita, i conflitti e le pulsioni possono essere esperiti in maniera intensa ed affettivamente coinvolgente. Più recentemente all’interno di paradigma delle Arti-terapie, la prospettiva della drammaterapia (o teatroterapia) propone una concezione della catarsi che integra ed estende tali riflessioni. Ritornando alla radice teatrale, il drammaterapeuta vede la catarsi come un processo attivo di “transfert” e trasformazione degli affetti. Attraverso la rappresentazione artistica, lo spettatore può comprendere, attenuandone l’effetto emotivo immediato, gli aspetti profondi della sua realtà psicologica ed esistenziale. Contemplare dall’alto, vedere da una certa distanza o da un altro punto di vista le passioni che ci trascinano, può contribuire alla comprensione del loro significato. Nella comprensione di Robert Landy (1999, p. 137), la catarsi nella drammaterapia non è necessariamente uno sfogo di forti sentimenti, spesso è “l'abilità di riconoscere le contraddizioni, di vedere come aspetti conflittuali della vita psichica, del pensiero, del linguaggio o del sentimento possano esistere simultaneamente”(4). La catarsi, allora, può essere vista come il riconoscimento di un conflitto che genera tensione e disagio. Assumere una posizione dalla quale poter modulare la propria esperienza, spostandosi sui gradi del vissuto emozionale, vuol dire porsi a una “giusta” distanza da un contenuto emotivo: «possiamo intendere il distanziamento come un’interazione o un processo intrapsichico caratterizzato da un certo grado di partecipazione e di distanza» (Landy, 1999, p. 138). Landy fa coincidere il concetto di distanza estetica con quello di catarsi, intesa come conquista di equilibrio tra emozione e consapevolezza, tra coinvolgimento e distacco. Ad una “distanza estetica”, la persona può esperire l'ansia senza esserne sommersa; può “sentire intelligentemente” e “capire con sentimento”, elaborando la tensione attraverso un nuovo livello di comprensione. In questa prospettiva la catarsi è il raggiungimento di una posizione di distacco da cui si può arrivare a cogliere la natura profonda della realtà (impermanente, interrelata) in cui bene e male, sofferenza e felicità possono convivere. L'elaborazione del concetto di catarsi che ci ha lasciato nei primi decenni del secolo scorso Lev Vygotskij, offre degli spunti interessanti proprio a partire dall’esperienza estetica. Lo psicologo russo insorge contro chi vorrebbe vedere nell’arte solamente una funzione conoscitiva, gnoseologica, e anche contro chi riconduce l’arte al sentimentale, nella sua versione edonistica (l’arte come piacere). La sua attenzione va al processo di trasformazione che attraverso l’opera si mette in atto. Il processo artistico, insieme alla “metamorfosi del materiale dell’opera”, produce anche una “metamorfosi dei sentimenti”(5). Sentimenti, emozioni, passioni si trasfigurano innalzandosi dalla sfera strettamente individuale per divenire sociali e universalizzarsi. «Così, il senso e la funzione d’una poesia sulla tristezza non stanno affatto nel trasmettere a noi la tristezza dell’autore, nel contagiarci con essa, bensì nel trasformare questa tristezza in modo che agli uomini si riveli qualcosa di nuovo, in una più alta verità di vita» (ivi, p. 10). Per Vygotskij, il processo della catarsi si esprime attraverso “il contrasto di sentimenti” dove il contenuto affettivo di un’opera, si sviluppa in due direzioni contrarie, ma convergenti verso un unico punto finale nel quale si determina una trasfigurazione del sentimento, una sua chiarificazione e illuminazione» (ivi, p. 11). La tragedia ci dispone a tendere verso l’infinito, a proiettare il nostro sentire oltre i limiti dell’io, delle emozioni personali, mettendoci a contatto con il tremendo e il sublime. È questa la posizione di W. M. Dixon (1925)(6) che denuncia il rischio del dramma moderno di perdere questa funzione epifanica, riducendo quei motivi universali a questioni sociali e psicologiche. Mentre il personaggio tragico, adempiendo alla funzione della tragedia, contribuiva al progresso etico: riaffermando il legame religioso (re-ligāre) dell’uomo con il suo “destino meta-psicologico”. La katharsis diventava un forte segno di rigenerazione spirituale. In questo ultimo caso potremo parlare di “livelli crescenti di libertà”, nell’accezione kantiana. La libertà è, per Kant, «un principio che è capace di determinare l’idea del soprasensibile in noi…”.(7) L’ammirazione di bellezza e il sentimento religioso, hanno molto in comune nell’essere entrambi la porta per l’esperienza del sublime, estrema condizione di libertà, sganciata da ogni esperienza sensibile e emotiva. Il sublime è infatti, per Kant, «ciò che, anche solo a poterlo pensare, attesta una facoltà dell’animo che supera ogni misura dei sensi» (ivi, p. 86). Angela Ales Bello(8), partendo dalle pagine del Convivio di Platone, esplora il tema dell’amore tracciato da Edith Stein(9), rintracciando diversi livelli del sentire partendo da quello psicofisico detto “sensoriale” in cui assumono rilievo le sensazioni di attrazione/repulsione, fino a un livello che l’autrice chiama “religioso-sapienziale”, frutto di un cammino conoscitivo e spirituale, di una iniziazione o pedagogia sapienziale: «un processo educativo che ha bisogno di un Maestro, conoscitore della verità, il quale conduce verso il bene» (ivi, p. 142. ) e verso la Bellezza assoluta. La filosofa e antropologa Suzanne Langer, ha descritto il processo psichico simile alla nozione di catarsi che si esprime nella “esperienza estetica” e in “performance rituale”. In particolare, descrive le emozioni suscitate nei diversi contesti, ponendo accento sul significato, sulla trasformazione, sulla distanza estetica, sulla libertà. Nell’esperienza estetica, il materiale fornito dai sensi viene, secondo la Langer, trasformato: […] l’emozione estetica scaturisce dal superamento di barriere (costituite da pensiero coatto) e dall’ottenere di penetrare in certe realtà che sono, letteralmente, “ineffabili”; ma il contenuto emotivo dell’opera può essere qualcosa di molto più profondo di ogni esperienza intellettuale…: le realtà ultime stesse, i fatti centrali della nostra breve, senziente esistenza. Il “piacere estetico”, allora, è affine (benché non identico) alla soddisfazione di scoprire la verità(10). Quindi scoprire la “verità artistica” non ha a che fare con i significati razionali, ma con la trasformazione che l’opera nei suoi modi propri induce. La ricerca dell’esperienza di verità è stata per tutta la vita l’obiettivo del fondatore del conosciuto metodo teatrale, lo scienziato dell’arte dell’attore, Konstantin Stanislavskij (1863-1938). Secondo il grande regista russo, lo spettacolo ha raggiunto il suo scopo, se “lo spettatore dimentica di aver pagato il biglietto, di essere seduto in una poltrona di velluto, di aver lasciato il lavoro solo momentaneamente, di vivere a teatro il suo tempo libero”. Stanislavskij interpreta la versione della catarsi in un'esperienza artistica che non si colora dallo sgomento e il terrore delle tragedie antiche ma si offre come la sorpresa di osservare la realtà in uno specchio che non la deforma, ma la propone agli occhi dello spettatore che viene posto di fronte a sé stesso, alla sua realtà profonda. Per raggiungere quella verità così desiderata Konstantin Stanislavskij aveva introdotto un percorso, che coinvolge il corpo, la mente e l’etica dell’attore. Per riattivare le forze creative, per ritrovare il "tesoro" nascosto e renderlo visibile, l’attore doveva raggiungere una disciplina tale da porre ordine nella sua mente; questo significava riuscire a ricomporre i brandelli dei pensieri e delle emozioni, così da ricondurli entro contorni vivi e precisi, per costruire immagini che si collochino in uno spazio interiore ordinato. La scienza psicologica dell’India classica propone metodi e terapie per ristabilire l'armonia nel complesso mente-corpo di un individuo non come fine a sé stessa, ma come strumento per conseguire lo scopo ultimo dell'esistenza: la realizzazione della propria natura ontologica dell’origine divina senza la quale è impossibile sviluppare appieno la propria personalità e raggiungere uno stato di completa soddisfazione interiore. Come sottolinea nei suoi lavori il Prof. Marco Ferrini, Ph.D. Psychology, fondatore dell’Accademia delle Scienze Tradizionali dell’India, per la psicologia indovedica gli oggetti psichici (idee, pensieri, immagini, emozioni, sentimenti, ecc.) non sono meno reali e consistenti di quelli fisici, caratterizzati da una loro propria conformazione e funzione, rilevabili però con una metodologia differente rispetto a quella utilizzata per i corpi tangibili, e consistente principalmente nel metodo introspettivo, molto più consono e adeguato all’indagine psicologica rispetto a quello epistemologico definito pratyaksha e fondato sulla percezione sensoriale (p.9).(11) “Le scuole psicologiche moderne che non interpretano il processo psichico individuale in un orizzonte teorico di tipo materialistico-positivistico, si differenziano pur sempre dalla scienza psicologica indovedica, in quanto quest’ultima riconosce l’esistenza di una realtà ulteriore rispetto al corpo e alla mente; tale realtà viene identificata con la forza vitale e rappresenta il soggetto cosciente, atman, colui che fa l’esperienza di vedere, pensare, sentire, ecc., servendosi degli strumenti psicofisici”(ivi, p.10). Nel Bhagavata Purana, un compendio di saggezza vedica, c’è uno shloka famoso che afferma che qualsiasi dovere espletato, qualsiasi ruolo svolto non hanno valore se non suscitano in noi il gusto dell’amore, il gusto per la realtà. Senza uno scopo chiaro, sensa una conoscenza finalizzata all’evoluzione spirituale, una performance teatrale diventa un sovrapporsi di suoni, immagini, sentimenti, brandelli di sensazioni e tutto ciò turba, confonde la mente, accrescendo il disagio esistenziale. Il teatro vedico, che attinge dalle fonti di una tradizione antica di millenni, dove l'essere umano viene considerato come un'entità bio-psico-spirituale, consente un approccio terapeutico armonioso e complesso che purifica, sublima e trasmuta le energie psichiche incanalandole verso una dimensione trascendente. L’artista nella tradizione, sia che si tratti di scrittura, teatro, danza, musica, pittura o scultura, in virtù dell’aderenza alle leggi dell’ordine universale cercava, attraverso le proprie opere, di armonizzare tutti i piani antropologici dell’essere umano. In questa visione l’autentica opera d’arte è considerata quella che attraverso il linguaggio simbolico educa la mente a percepire i concetti di alta psicologia, invitando nel mondo della trascendenza oltre la mera rappresentazione sensoriale. Per la psicologia vedica assistere ad una scena di violenza non è un’esperienza catartica bensì contaminante per la psiche. “Un qualcosa si libera del suo pathos e della sua negatività solo quando viene profondamente compreso e superato. La catarsi è una trasmutazione dell'emotività psichica che avviene naturalmente quando si è in contatto con il Divino, con persone di natura divina, con il messaggio spirituale” (Dr. M.Ferrini, Psicologia e Terapie, Centro Studi Bhaktivedanta). Nell'India antica la rappresentazione teatrale veniva offerta come un sacrificio dove si ricreava l'ordine cosmico universale; un attore, come un sacerdote con i complessi riti di purificazione purvaranga, apriva, alla divinità e a tutti gli attori partecipanti, il luogo sacro della recitazione. Nel teatro indiano, ogni dimensione presentata nell’opera appare racchiusa dentro un'altra superiore, livello metatemporale, che rimane nella mente, come traccia, dove dietro le poesie di una incomparabile fragranza estetica, che dolcemente attirano nel mondo di sentimenti, pensieri, visioni e spazi metafisici, si scopre la realtà spirituale. Secondo il pensiero antico indiano, sia le leggi fisiche che quelle etiche sono espressioni di un unico ordine universale di origine divina, riscontrabile non solo all'esterno, ma anche nella mente e nella coscienza individuali. Scopo della visione teatrale è quello di ricostituire l’Ordine divino (ritam) che consente l’ottenimento della liberazione attraverso il sentimento estatico. Uno dei concetti più importanti del Natyashastra, il Trattato Vedico di Teatro, Musica e Danza, è l’esperienza dei rasa. “Natya” è essenzialmente rasa, presentato tramite situazioni, mimesi, stati emotivi transitori; nella visione dell’opera, rasa è un sentimento che non può essere sperimentato per via di nessun mezzo della conoscenza empirica, ma solo grazie alla sensibilità estetica. Rasa, l’oggetto estetico di natura trascendente, rappresenta l’essenza dell’arte drammatica, la quintessenza di un opera d’arte, che è un processo a due sensi: l’artista cerca di esprimere rasa nel suo lavoro e il rasika o il “conoscitore”, colui che sperimenta, coglie questo sentimento grazie alla percezione intuitiva. Quando il rasa viene espresso nell’arte e nell’esperienza estetica, il termine indica uno stato di elevata gioia o ananda, quello stato di beatitudine che può essere sperimentato solo nella nostra essenza ontologica. La gioia elevata che si vive nella contemplazione e condivisione di un'opera d’arte stimola a raggiungere uno stato yogico che permette di calmare la irrequietezza dei sensi e della mente, di liberare dai veli della dualità del mondo fenomenico e di realizzare il vero conoscitore d’esperienza, l'atman.

(1) Aristotele, Poetica, 6, 1449b 24-28, trad. di M.Valgimigli.
(2) Abreazione, neologismo (ab-reagieren) coniato da Breuer e Freud (il prefisso ab comporta vari significati: distanza nel tempo, separazione, diminuzione).
(3) Fornari Franco, Nuova proposta per la psicoanalisi dell’arte, Il Saggiatore, Milano, 1979.
(4) Landy Robert, Drammaterapia. Concetti, teoria e pratica, EUR, Roma, 1999.
(5) Vygotskij Lev S., Psicologia dell’arte, Editori Riuniti, Roma, 1976.
(6) Dixon W. M., Tragedy, Un. press, London, 1925.
(7) Kant Immanuel, Critica della ragione pura, Einaudi, Torino, 1999.
(8) Docente di filosofia e religione presso la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense, Roma.
(9) “Sacralità dell’amore” in Amore sacro amore profano, (a cura di) Cavaciuti S. e Contini A., Bastogi, Foggia, 2005.
(10) Langer Susanne, Filosofia in una nuova chiave. Linguaggio, mito, rito e arte, Armando, Roma, 1972.
(11) Marco Ferrini Pensiero, azione, destino. Potere e uso del pensiero. Centro Studi Bhaktivedanta, 2004.