mercoledì 4 marzo 2009

MICHELANGELO, UN MADRIGALE,
L'ESPERIENZA ESTETICA E LA MISTICA NEOPLATONICA.

di Fabrizio Fittipaldi.


Le cose che occhio non vide,
e che orecchio non udì, e che mai salirono nel cuore dell’uomo, sono quelle che Dio ha preparato per coloro che lo amano.
San Paolo, Lettera ai Romani.

Lo scopo di questo breve commento è di portare l’attenzione sulla dimensione mistica e devozionale che pervade l’opera e la personalità di Michelangelo e che rappresenta il fulcro di tutta la sua arte. Sempre più spesso l’approccio alle grandi personalità creative di ogni campo (dell’arte, della filosofia, della scienza) è pregiudizialmente determinato a ignorare, come aspetti secondari e quasi folkloristici la vita interiore e le realizzazioni spirituali che sono in realtà l’unico soggetto di ogni opera veramente creativa.

La composizione di questo madrigale risale a un periodo compreso tra il 1541 e il 1544, quando il grande artista e genio del Rinascimento era prossimo ai suoi settanta anni di età.

Per fido esemplo alla mia vocazione
Nel parto mi fu data la bellezza,
Che d’ambo l’arti m’è lucerna e specchio.
S’altro si pensa è falsa opinione.
Questo sol l’occhio porta a quella altezza,
Ch’a pinger e scolpir qui m’apparecchio.

Se giudizii temerarii e sciocchi
Al senso tiran la beltà, che muove
E porta al cielo ogni intelletto sano,
Dal mortale al divino non vanno gli occhi
Infermi, e fermi sempre pur là, dove
Ascender senza grazia è pensier vano.

La “bellezza” di cui ci parla Michelangelo non è mortale (“Amor, la tua beltà non è mortale”: così scriveva una decina d’anni prima) e neanche indica il talento o la capacità di osservare attentamente e registrare le proporzioni e le armonie delle cose del mondo. Piuttosto rimanda a una luce interiore che è “esemplo”, guida, faro alla sua vocazione artistica. È espressione della multiforme vitalità dell’anima; una seconda e superiore vista; un senso spirituale. È innata e non frutto di studi: una sensibilità per il trascendente che corrisponde a purezza ed elevazione, morale e spirituale.

Questa luce interiore è sorgente dell’ispirazione e strumento per la riflessione, che non sorgono dall’esperienza mondana o dall’osservazione delle “cose mortali”. È solo questa luce che infonde all’occhio un potere divino e che permette all’artista di trascendere la bellezza effimera e sensoriale e di contemplare realtà superiori. E l’artista si fa, attraverso la sua opera, mediatore tra la dimensione trascendente e quella materiale.

In questo passaggio il poeta Michelangelo sembra voler riprendere alcune terzine dantesche:

Nel ciel che più della Sua luce prende
Fu’io, e vidi cose che ridire
Né sa né può chi di là su discende;
[…]
Veramente quant’io del regno santo
Nella mia mente potei far tesoro,
sarà ora matera del mio canto.(1)

È forte il contrasto tra l’“intelletto sano” di dantesca memoria e i “giudizii temerarii e sciocchi” di chi, privo di ogni capacità di discernimento, riduce la vertiginosa esperienza estetica all’angusta relazione, psicofisica e materialista, dei sensi con i loro oggetti corrispondenti (la vista con le forme e i colori, il tatto con le tangibilità, l’udito con i suoni…). L’"intelletto sano", purificato da una condotta di vita morale e virtuosa, e in armonia con le leggi universali che governano il cosmo, è degno e atto a essere ispirato e trasportato, dalla bellezza, nell’esperienza mistica ed estetica. Il dialogo riportato dal pittore portoghese Francisco de Hollanda testimonia questo pensiero di Michelangelo:

"Non basta ad un pittore per imitare in parte la venerabile immagine del Signor Nostro, essere un grande maestro, ma deve tener buona vita e, se possibile, essere santo, acciocché il suo intelletto sia ispirato dallo Spirito Santo… Perché molte volte le immagini male dipinte distraggono e fanno perdere la devozione, almeno a quelli che ne hanno poca; e al contrario quelle che sono divinamente dipinte anche ai poco devoti e pronti a ciò, provocano e traggono le lacrime".

Anche secondo le teorie del frate domenicano Girolamo Savonarola, che influenzò profondamente la vita di Michelangelo, esiste una strettissima corrispondenza tra il livello di coscienza sviluppato dall’artista e la capacità dell’opera sua di ispirare o no valori trascendenti, nella prospettiva di un’arte che sia al servizio della fede e della spiritualità.

La teoria di Michelangelo sulla scultura ripropone il medesimo principio, quando ci parla di un “concetto” che è già circoscritto nel blocco marmoreo, ma imprigionato nel “soverchio” della pietra. La figura è intrappolata nel marmo, così come l’anima nella prigione del corpo e della mentalità egoica; la scultura, come la vita, è un percorso di purificazione e di liberazione dai soffocanti condizionamenti della materia. È lo stesso artista che a qualche anno di distanza, rivolgendosi al Signore scrive in un sonetto:

Tu desti al tempo ancor quest’alma viva
E ‘n questa spoglia ancor fragil’ e stanca
L’incarcerasti e con fiero destino.

Michelangelo - Prigione detto lo Schiavo che si desta (Firenze, Galleria dell'Accademia, 1520-32).

In una composizione successiva mette l’accento sulla potenza e pericolosità dei condizionamenti psichici e in particolare di quel deviato sentimento di amore rappresentato dall’attaccamento alla falsa immagine di se stessi (l’amor proprio):

Manca la speme, e pur cresce il desio Che,
da Te, sia dal proprio amor disciolto.


Quando, a proposito della poetica di Michelangelo, si parla dell’immagine interiore, non ci si riferisce tanto alla teoria della figura contenuta nella pietra, ma piuttosto all’“immagine del cor” che l’artista, purificato da una vita regolata e virtuosa, realizza e custodisce nell’anima sua e la cui natura e bellezza trascendono tutto ciò che si può trovare nel mondo visibile. L’opera stessa, anche se compiuta e definitiva, non può che essere un debole riflesso di quella divina idea ed è per questo che Michelangelo, come ci spiega il suo discepolo Ascanio Condivi, “poco si sia contentato delle sue cose, e che sempre l’abbia abbassate; non parendogli che la mano a quella idea sia arrivata, ch’egli dentro si formava”. È proprio questa eterna tensione tra spirito e materia che trova la più eccelsa espressione nell’insuperabile incompiutezza che caratterizza le sue opere scultoree più mature.
Michelangelo - Pietà Rondanini (Milano, Castello Sforzesco 1552-64).

Ammorbato dagli errori e dal peccato e coperto dalla materia, tanto da essere diventato cieco e insensibile alla propria intima natura spirituale, l’individuo ha ormai sviluppato un’alterazione della propria struttura psichica -originalmente orientata alla contemplazione del divino- e non ha più accesso alla dimensione spirituale. È follia pensare di raggiungerla col molto osservare o col molto studiare: solo Dio, per la Sua inconcepibile misericordia, concede al Suo devoto la visione e l’esperienza della Realtà suprema, così come hanno testimoniato mistici di tutti i tempi e di tutte le religioni.

È in questo regno trascendente che l’arte dimora, rivelando così la sua natura assolutamente spirituale; e “dal ciel seco / Ciascun la porta”, canterà il poeta Michelangelo.

Arte e spiritualità!

Arte è spiritualità!

Ogni creatività che sia ignara di questa ontologica relazione non potrà che essere una creatività “in-ferma”, non stabilita nella Realtà e nella consapevolezza di sé. E “infermi” sono gli occhi (lucerne dell’anima) di chi, invano, tenta l’assalto al divino, fissando il proprio sguardo, tutto umano, verso l’orizzonte trascendente.

(1) Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, versi 4-6 e 10-12.


Riferimenti audio e bibliografici:

Anthony Blunt, Artistic Theory in Italy 1450-1600, London, 1940.
Marco Ferrini, Arte come Yoga, Vicenza (Auditorium del Conservatorio di Musica), 21/09/2002.
Marco Ferrini, Il Viaggio di Dante e la Bhagavad-gita. Paradiso. Pinarella di Cervia - Ravenna, 04/2007.

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