martedì 5 luglio 2011

ARTE COME YOGA (TERZA PARTE)

L'esperienza artistica nella classicità del pensiero indiano.
La potenza o la luce creativa che è nel poeta(1), riverbero della luminosità del Signore, può essere naturale, acquisita attraverso la pratica della disciplina (
sadhana) o appresa per via degli insegnamenti; nel primo caso il poeta è “di Sarasvati”: egli non è uno stilista, ma uno che ascolta e riferisce. Questi tre gradi di accesso alla Sapienza non sono tra di loro alternativi; costituiscono piuttosto un sistema coerente che attraverso un percorso di apprendimento e di purificazione, conduce il ricercatore e artista al livello del Comprensore (vidvan, buddha), la cui onniscienza è pari a quella del Signore in quanto Vishvakarman (Creatore universale), con il Quale condivide l’assoluta abilità nel campo dell’arte.

Shore Temple, Mahabalipuram, Pallava, 700-720 d.C.

In Loro, che sono pienamente soddisfatti in se stessi, che hanno raggiunto la destinazione ultima, la Loro natura spirituale e l’identità qualitativa con Dio, non esistono opere: avendo trasceso ogni fine e interesse egoico, le loro azioni sono libere dai condizionamenti karmici e lo shilpa (opera d’arte) diviene lila (gioco divino)(2).
La pratica dell’arte è una vocazione, non una ragione di successo e la virtù essenziale dell’artista è l’obbedienza, ovvero la fede (shraddha). Per l’artista indiano valgono le parole del Cristo, “non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo” e “chi parla da se stesso, cerca la propria gloria”(3); le parole di Platone “l’uomo che ha avuto questo Dio per maestro diventa rinomato e illustre, ma chi non è stato posseduto da Amore rimane oscuro”(4); le parole di Dante “I’ mi son un che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro, vo significando”(5).
La concezione indiana del genio si discosta, dunque, dalla nozione moderna, perché non implica l’inosservanza della norma, ma al contrario, la perfetta conoscenza e la profonda interiorizzazione di tutte le norme, e una virtuosità corrispondente. Non ci si aspetta, dunque, che l’artista singolo scopra da sé come le cose devono essere fatte, ma ci si aspetta che egli faccia di tale conoscenza parte integrante di sé, in modo da acquisire l’abito della sua arte.
L’artista autentico non trova nessuna ragione di fierezza quando, presentando l’opera compiuta al committente o allo spettatore per il quale fu fatta, sente elogiata solo la sua abilità (senza la quale sarebbe stata pura presunzione fare alcuna cosa) o solamente il suo stile (che egli ammette solo come accidente individuale e non come essenza della sua opera), mentre il tema dell’opera -a cui egli ha letteralmente votato e dato se stesso facendolo vivere in sé ancor prima che nella materia- viene trattato come una semplice etichetta o un pretesto.
L’insuccesso, dunque, non è attribuito a una mancanza di abilità, né a mancanza di osservazione, ma a una realizzazione poco intensa della forma essenziale del tema, nel cuore dell’artista; qualunque sia la sua arte. Il che è come dire che il prodotto è informe, perché è alla forma conosciuta interiormente che il gesto obbedisce; una forma conosciuta solo nell’intimo, come arte nell’artista.
Lo spettatore non può giungere alla visione della bellezza prescindendo dal tema, ma solo integrandosi con il suo significato e identificandosi consapevolmente con l'oggetto della sua contemplazione. Così l'immagine che è nel cuore dell'artista, prima che l'opera sia compiuta, viene rievocata nel cuore dello spettatore che per l'intensità del suo ardore (tapas) può compensare qualunque difetto (dosha) formale. Per essere sopraffatti dalla verità bisogna aver sviluppato le giuste capacità.
Le opere d'arte, pur senza esserne la causa né essere a ciò finalizzate, sono per lo spettatore competente occasione o fonte di una beatitudine incondizionata (ananda), che trascende ogni piacere o significato, provocato o comunicato dall'opera stessa. Questa beatitudine, che si prova quando si vede o si gusta la bellezza ideale (rasa) dell'opera, è un'esperienza del tutto spirituale; è l'assaporamento trascendente della bellezza ideale, gemello dell'assaporamento di Dio.
È questa l'esperienza più profonda che un'opera d'arte possa indurre, il nostro stesso essere è scosso fino alle radici. Essa comporta un annullamento dell'ego, della personalità storica e condizionata dello spettatore ed è in questo che risiede la sua desiderabile terribilità. Questa non può essere un'emozione che scaturisce da un esperienza puramente sensoriale, ma rappresenta lo shock del convincimento, il colpo che è inferto da qualunque enunciazione perfetta e quindi convincente della verità; uno shock estetico (samvega, vegam) che, secondo la dottrina platonica e indiana della Reminiscenza, può essere provocato soltanto se abbiamo imparato a riconoscere la verità quando la vediamo.

(1)Dal greco poietes (creatore), nome d’azione di poieo (creo).
(2)Giochi e avventure divine compiute dalle manifestazioni del Signore Supremo che discendono nell’universo materiale in diverse epoche.
(3) Gv., 8, 28; 7, 16 e 18.
(4) Simposio, 197 a.
(5) Purgatorio, XXIV, 52-54

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