martedì 15 marzo 2011

RICONSIDERARE CARAVAGGIO (SECONDA PARTE) di Fabrizio Fittipaldi.

Le testimonianze.
Il mio proposito è quello di supportare questa rivisitazione sull'arte e quindi sulla personalità di Caravaggio, sulla scorta di un ricca serie di testimonianze contemporanee all'artista e quindi precedenti alle influenze culturali brutalmente e fanaticamente materialiste che si sono andate imponendo sulla nostra società, soprattutto a partire da quel fenomeno filosofico è scientifico che va sotto il nome di positivismo. Punti di vista distanti da una mentalità, come quella odierna, pregiudizialmente ostile a considerare la possibilità di dimensioni coscienziali superiori, che trascendano l'interesse egoistico e il piacere dei sensi, considerati come meta ultima del nostro irrinunciabile viaggio alla ricerca della Felicità. Attraverso questo percorso saremo indotti a riconsiderare il valore di personalità e di contesti storico-culturali come quello della Controriforma cattolica e del cardinale Federico Borromeo. La Controriforma è stata soprattutto il tentativo, da parte della Chiesa Cattolica romana, di riaffermare con orribile violenza il proprio controllo assoluto sulle coscienze, in connubio col potere politico e attraverso i sofisticati strumenti che il Concilio di Trento le aveva messo a disposizione. Ma dobbiamo mettere in evidenza il fatto che hanno preso parte a questa risistemazione personalità capaci di trasmettere valide e antiche concezioni culturali e teologiche, inquinate dalla pesante atmosfera del tempo.
Quanto sia falsa l'opinione che il Caravaggio volle con le sue opere e con i suoi modi deliberatamente opporsi al rigido bigottismo controriformato, è testimoniato proprio dal fatto che, differentemente da grandi personalità come  Giordano Bruno o Galileo Galilei, non subì nessuna seria pressione dalle gigantesche macchine inquisitoriali; al contrario intrattenne importanti relazioni, per lo meno professionali, con alti esponenti del clero e dell'aristocrazia. Prima di lasciare il posto alle testimonianze vorrei invitare il lettore ad impegnarsi nello sforzo che implica l'affrontare testi redatti in un italiano relativamente arcaico; sono sicuro che ne potrà ricavare un gusto del tutto speciale, derivante dai sottili rimandi interni e da una speciale vitalità che da questi scritti traspare. Un gusto che non potrebbe essere stato trasmesso con una semplice esposizione dei contenuti. 

Cominciamo questo excursus con un frammento che ci mostra quanto fosse rilevante il ruolo del committente nel complesso processo della creazione artistica, responsabile com'era della trasmissione di determinati valori e contenuti, che non dovevano essere espressi con un linguaggio inopportuno. Nel contratto per gli affreschi che Simone Peterzano -il pittore che accoglierà nella sua bottega Caravaggio ancora undicenne- avrebbe dovuto eseguire per l'abside della chiesa certosina di Garegnano, viene significativamente affermato:

che tutto il scoppo et ogni cosa che vi si farà, tenda a provocare ogni somma divottione et motti divini ne li animi de risguardanti et che, per nessuna arte, non si pregiudichi al spirito et al decoro et natura de le sante et divine figure che vi si hano a fare (…). [Che il pittore] sia tenuto, al giudittio de periti, corregiere dil suo et a sue spese ogni errore dell'arte che vi fosse in essa opera, et al giudittio et gusto del Reverendo padre priore del detto monastero ogni errore commesso d'intorno alla divottione.

É mia intenzione ampliare il senso di queste testimonianze mettendole a confronto con i principi portanti della millenaria tradizione artistica indiana, che (come in altre occasioni abbiamo avuto e avremo ancora modo di vedere) corrispondono a canoni universali che trascendono i confini spaziali e temporali. Il testo di riferimento sarà in questo caso il bell'articolo di Ananda Coomaraswamy sul Ruolo dell'arte nella vita indiana. Così scrive l'autore:

È compito dell'artista sapere come le cose vanno fatte e avere la capacità di farle, così come è compito del committente sapere quali cose vanno fatte, e del consumatore sapere quali cose sono state fatte bene e secondo verità, ed essere in grado di farne uso secondo il loro genere. Non ci si aspetta certo che l'artista singolo scopra da sé come le cose devono essere fatte, ma ci si aspetta che egli facci di tale conoscenza parte integrante di sé, in modo da acquisire l'abito della sua arte. Come per il pensatore o per colui che agisce, così anche per l'artista esiste una norma o una ratio, suddivisa in canoni particolari di cui è serbata memoria nei trattati tecnici, in base a cui l'opera deve essere fatta. Solo le opere conformi a tali criteri sonno belle e attraenti secondo il giudizio di coloro che sanno: il gusto individuale non costituisce criterio alcuno.

L'arcivescovo di Bologna Gabriele Paleotti, nel suo Discorso intorno alle immagini sacre e profane, pubblicato nel 1582, proporrà un significativo quanto forte parallelo:

Al che fa molto a proposito quello che scrive Platone essersi osservato dagli Egizzii, ch'aveano per legge che i pittori et altri formatori di imagini non potessero alterare né introdurre cosa nuova, talmente che le pitture di quel tempo, quanto alla figura e forma, erano in tutto simili alle passate di molti secoli.

Andiamo a definire con le parole del cardinale  Federico Borromeo il significato più profondo e scientificamente specifico del termine decoro, così come viene descritto nella sua De pictura sacra:

Anche nei costumi degli uomini si ricerca e piace sopratutto agli occhi degli spettatori ciò che si chiama decoro; quello splendore cioè e quella luce o fiore che risulta da ogni movenza e da ogni gesto, luce e fiore di cui l'animo si letizia. E quella gioiosità e quel piacere (…), l'arte lo trasfonde nelle immagini che (…) riproducono quelle azioni umane (…). E invero qualunque pècca contro il decoro si commette nelle opere d'arte, rimane in perpetuo ed è insopprimibile (…). Inoltre si offende e si vien meno al decoro nei costumi inavvertitamente (…); mentre con animo deliberato e con le proprie mani si deforma e si deturpa il decoro dell'arte (…). La qual mancanza o ingiuria o deturpazione del decoro (…) ancor più riprovevole si è ogni qual volta la si commetta ai cose sacre e divine (…). Il decoro non mai si distingue dalla virtù. I Pitagorici sostennero perfino che la virtù non è che l'abito del decoro (…). Dal fin qui detto si comprende come siano necessarie delle norme e dei precetti e cautela grande affinché la materia sacra sia rettamente e con ordine dipinta.
Caravaggio, Martirio di San Matteo, 1599, Roma, San Luigi dei Francesi.
Più avanti il cardinale Borromeo afferma genericamente che

(...) uomini contaminati non devono trattare cose divine essendosi resi indegni di tale mistero (…); pieni di vizi e di colpe come sono, non si vede come possano infondere nelle immagini quella pietà e quella religione che essi non hanno.

Queste opinione del Borromeo viene ripresa ed elaborata da monsignor Giovanni Agucchi che tra il 1607 e il 1615, a proposito dei moderni che hanno “rassomigliato i peggiori” e “figurato gli eguali”, afferma:

Fra questi il Caravaggio eccellentissimo nel colorire si dee confrontare a Demetrio, perché ha lasciato indietro l'Idea della bellezza, disposto di seguire del tutto la similitudine (…). Intenderassi agevolmente quanto meritano di lode li Pittori, che imitano solamente le cose, come nella natura si trovano, e si debba farne la stima che ne fa il volgo: perché essi non arrivando a conoscere quella bellezza che esprimer vorrebbe la natura, si fermano a quel che veggono espresso, ancorché lo trovino oltremodo imperfetto. Da questo ancora nasce che le cose dipinte e imitate dal naturale piacciono al popolo, perché egli è solito a vederne di sì fatte e l'imitazione di quel che a pieno conosce, li diletta. Ma l'huomo intendente, sollevando il pensiero all'Idea del bello, che la natura mostra di fare, da quello vien rapito, e come cosa divina lo contempla.

Proponendo una complessa gerarchia sociale il Discorso di Gabriele Paleotti “comportava senza fallo anche una scala di soggetti, ma almeno implicitamente ribadiva la subordinazione del momento tecnico-fabbrile al momento spirituale-ideativo, e soprattutto forniva, stavolta esplicitamente, la legittimazione teologica dell'assetto gerarchico della società, i cui parametri non possono non essere considerati i modelli su cui furono costruite anche le scale artistiche”(1).

(...) perciò che questo concluderebbe, che tutte le cose del mondo, sensibili et insensibili, fossero indifferentemente nobili, poi che escono tutte da un fonte e da un autore istesso. Ma dicemmo che, quantonque Iddio sia autore commune di tutte le cose, ha però creata ciascuna nei suoi gradi, altre superiori, altre inferiori, altre più e altre meno perfette, altre picciole, altre grandi, accioché l'une servissero all'altre. E parimenti ha istituito diversi ordini di persone, d'uffici maggiori e minori, che così è stato conveniente alla bellezza, alla necessità et alla perfezione dell'universo; si come veggiamo che tra i membri del corpo nostro, che pure tutti sono fattura delle mani sue, alcuni sono più ignobili degli altri.

Catur-varnyam maya srishtam
guna-karma-vibhagashah

Io ho creato le quattro divisioni della società umana
sulla base delle influenze della natura materiale
e delle attività ad esse collegate.
(Bhagavad-Gita 4.13)

A proposito del rinomato spirito antisociale del Caravaggio, che tanto ha affascinato i nostri contemporanei, è interessante il confronto tra una nota del marchese Vincenzo Giustiniani e il racconto che ci ha lasciato il biografo Giovan Pietro Bellori, circa sessant'anni dopo la morte del pittore, sulla sua difficile relazione con i maestri e con i grandi modelli del passato. Appare chiaramente quanto questa attitudine sia il riflesso di una profonda frustrazione e il frutto di un'orgogliosa arroganza, piuttosto che la coerente conseguenza di una riflessione matura, serena e autenticamente filosofica.

Il Caravaggio disse, che tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori, come di figure.


[Ma quando] Michele, dalla necessità costretto andò a servire il cavalier Giuseppe d'Arpino, da cui fu applicato a dipinger fiori e frutti, (…) esercitandosi egli di mala voglia in queste cose, e sentendo gran rammarico di vedersi tolto alle figure, (…) uscì di casa di Giuseppe per contrastargli la gloria del pennello. Datosi perciò egli a colorire secondo il suo proprio genio, non riguardando punto, anzi spregiando gli eccellentissimi marmi de gli antichi e le pitture tanto celebri di Rafaelle, si propose la sola natura per oggetto del suo pennello.

A proposito della differenza sostanziale che intercorre tra preparazione tecnica ed educazione artistica, molte sono le testimonianze significative, e tra queste il giudizio risalente al 1633 dello spagnolo Vicente Carducho, il quale senza nascondere l'ammirazione per la straordinaria abilità del Caravaggio, giunge al punto di associare questa tecnica raffinatissima a una disposizione diabolica, che ricorda quella del Faust di Goethe. Prima di presentare questo passaggio è fondamentale accennare, almeno, al fatto che la più autentica interpretazione della figura di Satana, secondo quella che potremmo definire una psicologia semitica, corrisponde, piuttosto che ad una ontologica espressione del male assoluto, agli aspetti più oscuri della nostra personalità condizionata, a quell'io inferiore ed ego-centrato, che si oppone alla liberà espressione della nostra natura divina.

Chi dipinse mai come questo mostro di ingegno e di talento, e giunse a farlo così bene, quasi senza precetti, senza dottrina, senza studio, ma solo con la forza del suo genio (…). Ho sentito dire a uno zelante della nostra professione, che l'arrivo di questo uomo al mondo, sarebbe presagio di rovina e fine stessa della pittura; e che così come al termine di questo mondo visibile, l'Anticristo, con falsi portenti e miracoli e con prodigiose azioni, si porterà dietro di sé, alla perdizione, un così grande numero di persone, mosse dalle sue opere , apparentemente così ammirabili (seppure in se stesse ingannevoli e false, prive di verità e di durevolezza), dicendo essere lui il vero Cristo. Così questo Anti-Michelangelo con la sua affettata ed esteriore imitazione, con il suo ammirabile modo e la vivezza delle sue immagini, ha potuto persuadere una così numerosa parte del genere umano, che quella è buona pittura, e che il suo modo e la sua dottrina sono vere, quando hanno voltato le spalle all'autentico modo di eternizzarsi, e di conoscere con evidenza e verità, propri di questa materia.

Dopo quel che abbiamo detto, anche a proposito dell'evidente materialismo  che intride la coscienza del pittore, possiamo ancora stupirci di fronte all'infantile attaccamento che Caravaggio intratteneva per le committenze ecclesiastiche e al gran dolore che gli procurava il rifiuto delle proprie opere.

Qui avvenne cosa che pose in grandissimo disturbo e quasi fece disperare il Caravaggio in riguardo della sua riputazione; poiché avendo egli terminato il quadro di mezzo di San Matteo e postolo su l'altare, fu tolto via dai preti, con dire che quella figura non aveva decoro, né aspetto di Santo, stando a sedere con le gambe incavalcate e co' piedi rozzamente esposti al popolo. Si disperava il Caravaggio per tale affronto nella prima opera da esso publicata in chiesa.

Eppure dai sui lavori traspare un'assoluta mancanza di visione trascendente e una prospettiva di riferimento tutta schiacciata sul piano della superficie formale dei corpi e degli accadimenti, del tutto esterni rispetto ai profondi moti della coscienza luminosa, i quali dovrebbero essere la prima materia dell'arte.

Dipinse una fanciulla a sedere sopra una seggiola con le mani in seno in atto di asciugarsi i capelli, la ritrasse in una camera, e aggiungendovi in terra un vasello d'unguenti, con monili e gemme, la finse per Maddalena.
Caravaggio, La Maddalena, 1596, Roma, Galleria Doria.
Nel suo Discorso il cardinale Gabriele Paleotti, trattando il tema della novità nell'arte, introduce un argomento di grande rilievo:


[Questa “novità”] non ripugna punto a cosa di religione, anzi è conforme quasi necessariamente alla verità, nondimeno l'uso non l'ha mai introdotta, e però turba la vista nostra non mediocremente. Il che può accadere in due modi principalmente: l'uno dei quali quando si figurassero cose di santi che non giovano né rilevano punto, come serìa che dipingesse san Filippo in letto che dorme, o sant'Andrea a tavola che mangia, o san Petronio che si veste, o sant'Agnese che si scalza; perché, se bene non si può negare che queste cose non siano state vere, nientedimeno è novità infruttuosa il rappresentarle, se non siano accompagnate da altra cosa notabile.

Dal canto suo Ananda Coomaraswamy nell'articolo già citato, replica:

Se quindi vediamo il Buddha rappresentato come fosse un uomo, lui che all'uomo è superiore, da un punto di vista estetico noi possiamo giudicare l'opera solo per quello che di fatto è, la rappresentazione di un uomo, mentre da altri punti di vista non possiamo che respingerla, perché non volevamo l'immagine di un uomo, ma un simbolo che incarnasse un significato.

Molti altri dubbi e perplessità potranno in parte essere dissipati dalle successive testimonianze che descrivono in termini a mio parere del tutto equilibrati il turbolento carattere di Caravaggio, che non solo ha vissuto la sua professione con un atteggiamento straordinariamente conflittuale, attraendo a sé l'inimicizia di molti, non solo ha condotto una vita tutt'altro che esemplare, facendo del suo talento merce di scambio e strumento di miserevole affermazione sociale, non solo è stato ripetutamente coinvolto in risse e in denunce di aggressione, ma è anche giunto al limite estremo dell'omicidio e della latitanza che questo gli ha procurato, per il ferimento a morte di Ranuccio Tommasoni in una rissa “per un giudizio dato sopra un fallo, mentre si giuocava alla racchetta”.
La prima tra queste testimonianze, la dice lunga sulla purezza della sua vocazione e sul un presunto impegno sociale, autenticamente cristiano, al fianco degli ultimi e dei più derelitti. È quella che ci ha lasciato, già nel 1604 il pittore olandese Karel van Mader:

Ora egli è un misto di grano e di pula; infatti non si consacra di continuo allo studio, ma quando ha lavorato un paio di settimane, se ne va a spasso per un mese o due con lo spadone al fianco e un servo dietro, e gira da un giuoco di palla all'altro, molto incline a duellare e a far baruffe, cosicché è raro che lo si possa frequentare. Le quali cose non si addicono affatto alla nostra arte.

Giovanni Baglione, pittore contemporaneo del Caravaggio, che intenterà un processo contro di lui affermerà:

Fu uomo satirico e altiero; e usciva tal'ora a dir male di tutti li pittori passati e presenti per insigni che fussero, poiché a lui pareva d'aver solo con le sue opere avanzati tutti gli altri della sua professione.

Mentre il già citato Bellori scriverà:

Caravaggio non apprezzava altro che se stesso, chiamandosi egli fido, unico imitatore della natura.

E per dare ancora più credito a queste testimonianze, è il pittore stesso che nello svolgimento di un processo a suo carico dichiarerà che

li valenthuomini sono quelli che si intendono di pittura et giudicheranno buoni pittori quelli che ho giudicati io buoni et cattivi (…). Quella parola valenthuomo appresso di me vuol dire (…) che sappi dipinger bene et imitar bene le cose naturali.

E ancora:

Fu Michelangelo, per soverchio ardimento di spiriti, un poco discolo, e tal'hora cercava occasione di (…) mettere a sbaraglio l'altrui vita (Giovanni Baglione).


Questo suo gran sapere d'arte, l'haveva accompagnato con una gran stravaganza di costumi (Giulio Mancini).

Concludiamo questa breve riesamina della figura di un genio moderno con una testimonianza di Giovan Pietro Bellori che in questo brano tratto dalle sue Vite de' pittori, scultori e architetti moderni da prova di una finezza e penetrazione psicologica rara ai nostri giorni e riflesso di una cultura almeno da questo punto di vista più avanzata e sofisticata della nostra.

Tali modi del Caravaggio acconsentivano alla sua fisionomia ed aspetto: era egli di color fosco, ed aveva foschi gli occhi, nere le ciglia ed i capelli, e tale riuscì ancora naturalmente nel suo dipingere. La prima maniera dolce e pura di colorire fu la megliore (…). Ma egli trascorse poi nell'altra oscura, tiratovi dal proprio temperamento, come ne' costumi ancora era torbido e contenzioso; gli convenne però lasciar prima Milano e la patria; dopo fu costretto fuggir di Roma e di Malta, ascondersi per la Sicilia, pericolare per Napoli, e morire disgraziatamente in una spiaggia.

Bibliografia:
A. C. Bhaktivedanta Swami, La Bhagavad-Gita così com'è, 2007, The Bhaktivedanta Book Trust.
Ferdinando Bologna, L'incredulità del Caravaggio, 1992, Bollati Boringhieri, Torino.
Ananda Coomaraswamy, Il Grande Brivido, 1987, Adelphi Edizioni, Milano.

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