ARTE, COSCIENZA E ISPIRAZIONE (PARTE PRIMA).
Tratto da una conferenza del Prof. Marco Ferrini,
tenutasi a Ponsacco il 14 Marzo 2009.
A cura di Fabrizio Fittipaldi.
Tratto da una conferenza del Prof. Marco Ferrini,
tenutasi a Ponsacco il 14 Marzo 2009.
A cura di Fabrizio Fittipaldi.
Esiste una rapporto intrinseco tra arte e spiritualità, e questa impalpabile relazione è all’origine del fascino, del misterioso magnetismo che scaturiscono da ciò che in apparenza non è che un grumo di materia senza vita. Opere come la Pietà Rondanini o il Prigione di Michelangelo(1), sembrano emergere da sostanze inerti, ma allo stesso tempo possiedono una pregnanza, una valenza dinamica che può scuotere l’essere nella sua più intima essenza e interiorità. In sanscrito questo brivido è indicato col termine vegam e descrive quella scossa propria dell’impatto di un’autentica opera d’arte sulla sensibilità di uno spettatore attento e ricettivo. È un’energia invisibile che provoca trasformazioni concrete e sperimentabili nella coscienza di chi sia favorevolmente predisposto all’esperienza. Non tutti, dunque, sono immediatamente dotati di questa speciale sensibilità, di questa capacità di rilevare l’intima natura della bellezza: un’esperienza del bello che travalica la dimensione estetica e sensoriale, per introdursi nei più reconditi circuiti dell’essere, oltre le categorie spazio-temporali che circoscrivono la realtà psico-fisica, per raggiungere una dimensione più intima e profonda, illuminata dalla luce della consapevolezza. Arte senza ispirazione è ben poca cosa e diventa subito artigianato, ripetitività; una opera che non sia sostenuta da una originale esperienza d’ispirazione e che ricalca in maniera superficiale, per quanto tecnicamente e formalmente ineccepibile, la visione di qualcun altro, non ha nessuna possibilità di risvegliare nello spettatore una sensibilità profonda. D’altro canto se l’artista è stato attraversato da quel brivido di conoscenza che con la rapidità di un lampo si diffonde nel nostro essere illuminando a giorno la nostra comprensione e se su questa profonda realizzazione ha fondato la sua opera, allora ci troviamo di fronte a un segno in grado di restituirci quella stessa impressione trascendente. Non è detto che una autentica opera d’arte provochi in noi quel brivido di cui sto parlando: ciò dipende dalla nostra sensibilità, dalla nostra predisposizione, da quanto abbiamo purificato ed esercitato i nostri strumenti percettivi e da quanto siamo presenti, con la nostra coscienza, nell’esperienza. Esiste una stretta relazione tra coscienza e ispirazione. L’opera d’arte, come qualsiasi matura e stabile realizzazione della dimensione spirituale, è sempre l’esito di un processo e di uno sforzo continui, seppure con variabili di intensità. Percorrendo un sentiero ascendente, la coscienza dell’artista-ricercatore si affina progressivamente, fino a raggiungere un stato percettivo superiore, che gli consente di penetrare gli strati più superficiali e grossolani della materia. Se questi sforzi sono ben coordinati, gli apparenti insuccessi iniziali o intermedi, non potranno interrompere il coerente e continuo progresso, al di là di quanto possa apparire ad un osservatore distratto e superficiale. Il vero artista non si scoraggia mai, neanche di fronte a insuccessi clamorosi, ma, con incrollabile determinazione, persegue la sua vena e prosegue la sua ricerca. Nonostante la sofferenza, egli sa che ad ogni fallimento, ad ogni errore segue una correzione e, in virtù della correzione, la coscienza si innalza. Una coscienza elevata consente un innalzarsi del livello di attenzione, un intensificarsi del flusso continuo di energia psichica che, come la base di un cono sul suo vertice, converge sull’oggetto della ricerca. Nella mente dell’osservatore quest’ultimo viene a costituirsi come un punto: privo di dimensioni, fuori dal tempo e dallo spazio, ma, insieme, generatore di quel cerchio che delimita il suo intero campo coscienziale. Il vero artista giunge a sperimentare questi livelli, ma non è detto che riesca sempre a mantenersi collegato; può anche darsi che, pur seguendo la traccia con tutte le sue risorse, nella speranza di essere arrivato scopra di aver perduto il contatto. Viene da piangere e qualche volta, nelle persone meno equilibrate, insorgono moti di collera, anche gravi (come lo erano le crisi violente e distruttive del grande Michelangelo Merisi da Caravaggio).
L’ispirazione artistica, che è un elevato stato dell’essere, la si deve meritare e conquistare grazie ad uno sforzo continuo del soggetto. Può essere paragonata a una visione mistica, alla visione di strutture della materia che non sono rilevabili dalla percezione sensoriale. Si avvale di una differente, più profonda e interiore struttura appercettiva, rispetto a quella sensoriale; una struttura trascendente che non può soddisfarsi con combinazioni e armonie puramente estetiche e che, nella musica, nella danza, nella pittura, nella scultura o nell’architettura, è sempre alla ricerca di una dimensione ulteriore, essenziale e costruttiva.
Essendo stati formati a immagine e somiglianza di Dio, la qualità divina della creatività ci appartiene in modo essenziale, ma la si può esprimere solo quando viene raggiunto un livello di evoluzione sufficiente, al di sotto del quale non si può far altro che ripetere e contraffare. È la divinità insita in ogni donna e in ogni uomo che agisce con questo spirito creativo!
Oggi si è stabilita una tendenza ad abusare di termini quali “creativo” e “creatività”, ma la creatività di cui ci stiamo occupando è connessa al disvelamento della bellezza essenziale, al di là della sua apparenza esteriore. Dall’esperienza di questa bellezza scaturisce un brivido interiore che, seppur innescato dalle percezioni sensoriali, non è il prodotto di un corto circuito interno alla prakriti (materia) e generato dal semplice contatto dei sensi con il fenomenico esterno. L’esperienza mistica, qualunque sia la colorazione che assume, partecipa di una natura ben diversa rispetto a quella dei sogni o delle mere fantasie: non si tratta di una creazione o di una fabbricazione della mente, ma della percezione diretta di qualcosa che si è sprigionato dall’essenza stessa della realtà e che non necessita di nessuna verifica ulteriore. Chi l’ha vissuta potrebbe incontrare numerose difficoltà nel tentativo di descriverla o di spiegarla ad altri e, non riuscendovi, potrebbe anche essere messo in croce. Eppure l’esperienza, se autentica, non può essere, in alcun modo, cancellata.
Galileo, attualmente riconosciuto in tutto il mondo come l’iniziatore del metodo scientifico, a suo tempo fu costretto ad abiurare: a negare quelle verità di cui aveva avuto una così chiara e diretta esperienza. Nessuno, però, avrebbe potuto intimamente convincerlo della falsità delle sue intuizioni e delle sue scoperte, della erroneità della sua percezione e visione di un “dialogo tra i massimi sistemi”: una relazione universale che lui, coerentemente con la sua formazione, si sforzò di esprimere con funzioni matematiche.
Questa stessa relazione può essere espressa con qualunque mezzo a disposizione della creatività “umana” e della sua specifica capacità di ispirarsi a modelli e strutture della materia e del pensiero che gli occhi non vedono. Lo stesso Giordano Bruno aveva avuto esperienza di quello che diceva; o Michelangelo, nelle sue opere plastiche e poetiche. La persona ispirata riesce a concepire una forma nella materia apparentemente inerte; la visione dell’artista impregna l’opera e vi dimora e quando noi contempliamo l’opera, veniamo in contatto con quella visione che la sostiene.
Un chiaro esempio del carattere puro dell’ispirazione, indipendente dallo strumento attraverso il quale si manifesta, ce lo offrono Leonardo e il suo genio polimorfo. Furono gli Sforza ad attirarlo a Milano con il concreto compito, di riorganizzare le acque dell’Adda per migliorare ed estendere la produttività delle terre lombarde. Dobbiamo immaginarci Leonardo deciso ad applicare la sua grande intelligenza a quest’opera estremamente utile e che, osservando il territorio, contemplandolo e assorbendone l’intima natura e le segrete corrispondenze, comincia a concepire una serie di canali che rappresentano ancora oggi, a cinquecento anni di distanza, la struttura portante del sistema di irrigazione di centinaia di migliaia di ettari di pianura padana. Giacché era lì gli commissionarono l’affresco de “L’ultima cena”, dove egli ha inserito simboli, prospettive e visioni arcane e dove ha delineato un sistema di interazioni psichiche così ricco e sottile da meritare un’intera lezione dedicata esclusivamente a questo argomento. Erano la sua visione e le sue realizzazioni di una natura invisibile agli occhi a sostenere la sua potentissima creatività, non certo una grande, seppur in-significante, abilità tecnica.
Non ho intenzione di sminuire il ruolo della percezione sensoriale, ma il suo campo d’azione non può essere quello dell’arte. Gli appartiene, piuttosto, l’estetica dell’artigianato, in grado di produrre opere preziose e gradevoli che non rimandano, però, a nessuna dimensione “altra”. Gli artisti, così come i mistici e i religiosi, possono concepire un mondo di strutture non ancora materializzate e percepibili coi sensi, ma che, come direbbe Platone, esistono nel mondo delle idee. Dobbiamo affermare l’esistenza di questo paradiso platonico che, in altro contesto, prende il nome di Vaikhunta. Queste dimensioni possono essere visualizzate e possono essere consapevolmente sperimentate, grazie a un processo di ascensione a livelli superiori di percezione e di realtà.
(1) Confronta con l’articolo “Michelangelo, un madrigale, l’esperienza estetica e la mistica neoplatonica”, pubblicato il 4 marzo 2009, su questo stesso blog.
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